di don Pietro Groccia
 
Oggi va diffondendosi sempre più un nuovo genere di pubblicazioni che non sono vere e proprie biografie, bensì piuttosto schizzi di vescovi, i quali pur avendo tentato nell’esercizio del loro ministero di passare alla storia come “persone qualunque”, cioè umili creature al servizio di Dio, si sono rivelate invece autentici “granelli di platino”, che tutti dovrebbero conoscere. In tale collana, penso, troverebbe certamente posto la vicenda umana e spirituale di mons. Serafino Sprovieri, arcivescovo emerito di Benevento e già arcivescovo di Rossano-Cariati, che il Signore ha chiamato a sé la sera del 2 gennaio u.s. Morire in Cristo è sacramentale, ma celebrare la propria Pasqua nel tempo natalizio è provocatoriamente significativo. E se i segni contano qualcosa, mi sembra che don Serafino quello più eloquente l’abbia già compiuto proprio nel suo dolce passaggio. La tradizione cristiana vede la morte come la nascita definitiva, non come lo sfascio della vita, perché sempre riferita a Cristo e alla Sua morte e Risurrezione. “Sulla tua tomba bianca / sbocciano i fiori bianchi della vita … / Sulla tua tomba bianca / risplende luminosa quiete, / come se qualcosa ci sollevasse in alto, / come se confortasse la speranza”: questi versi del giovane Karol Wojtyla dedicati alla Madre, ci immettono sulla giusta via per trarre dalla morte di don Serafino ragioni di vita e di speranza, che ci spingono a interpretarla come svelamento totale di quel Dio che perennemente ci cerca nel nostro vagare umano. Chi ha avuto, come me, la gioia di sperimentarne l’amicizia, ha potuto toccare con mano quanto fosse viva in Lui la consapevolezza di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi; convinzione che lo ha sostenuto nel corso della sua lunga parabola umana e che si è rivelata, in modo speciale, nell’ultimo scorcio del suo viaggio terreno: il suo corpo da tempo già appariva preordinato per allestire gli ormeggi per il grande viaggio; i suoi occhi erano sereni e sembravano già proiettati verso il Volto di Colui che è stato l’unica ragione di tutta la sua esistenza. Sapeva, anche in vita, di essere prediletto dal Signore e questo privilegio gli ha accordato di esercitare un ministero abbondantemente fecondo, per il quale, ancora una volta, rendiamo appassionate grazie a Dio. E confesso la mia commozione a dover scrivere su di Lui. Commozione che nasce da un sentito pudore che mi spinge più al silenzio che alla parola, più ad inginocchiarmi che a comunicare. Mi sento, in breve, come timbrato dalla sua presenza nella mia vita. Mi sono sentito da Lui adottato nella specificità del suo ministero e profondamente amato e insieme a sua sorella Divina, ha alleviato la sofferenza della mia orfanezza. E, questo mio scritto vuole essere la riconoscenza spontanea d’un figlio, che illustra il Padre per custodirne e divulgarne la memoria. Il libro della Sapienza sostiene che: “il giusto è sempre nella memoria”! La morte di un pastore poi è densa di memoria. Il Siracide ammirando le figure di uomini pastori dice: “Nella loro discendenza dimora una preziosa eredità, i loro nipoti. La loro discendenza resta fedele alle promesse e i loro figli in grazia dei padri. Per sempre ne rimarrà la discendenza e la loro gloria non sarà offuscata. I loro corpi furono sepolti in pace, ma il loro nome vive per sempre. I popoli parlano della loro sapienza, l’assemblea ne proclama le lodi” (Sir 44.11. 12-15). Dobbiamo allora raccoglierne l’eredità, farne fruttificare i semi e, autenticati dalla sua testimonianza, ricaricarci nel nostro itinerario di fede. Una vita interessante, quella di mons. Sprovieri, che andrebbe raccontata nei minimi particolari ma soprattutto compresa nelle coordinate ermeneutiche portanti del suo esemplare impegno intellettuale e pastorale. É stato non solo vescovo di tutti, ma il vescovo per tutti. Ha esperito, in questo, la “espropriazione” propria di ogni apostolo: la non-appartenenza a sé, per essere tutto di Cristo, della Chiesa e dell’uomo. Era mite ed umile di cuore e il suo motto episcopale: Beati pacifici, esprime non solo la cifra di un episcopato, ma il senso di una vita. Scorrere le pagine del suo testamento spirituale è come ripercorrere in filigrana la sua vita.. Prima che il santo Padre Paolo VI lo chiamasse alla dignità episcopale, don Serafino è stato anche educatore, come Rettore del Seminario regionale San Pio X di Catanzaro. Qui, con l’esempio della sua vita trasparente e intemerata e con le sue parole sostanziate di grazia ha trasmesso a tante generazioni di sacerdoti la vera posta in gioco della formazione: consegnare perdutamente a Dio il proprio cuore per appartenergli come prigionieri dell’Invisibile. Era uomo di grandi agilità spirituali, intellettuali, pastorali. E, sia a Rossano che a Benevento, conquistò subito la simpatia della gente, essendo un Arcivescovo colto e preparato, aperto e cordiale, attento alla religiosità popolare, fenomeno ben visibile nella Chiesa meridionale. In tale ottica ha sponsorizzato con tanto ardore e passione, attraverso l’organizzazione di convegni e conferenze, il Progetto culturale orientato in senso cristiano, per promuovere un’intelligente mediazione culturale della fede. In sintesi, l’azione pastorale di don Serafino ha saputo con maestria mostrare quanto non si oppongano, ma possano convergere, lo “spiri¬tuale” e il “pensatore”, per rendere comprensibile e praticabi¬le la fede nel contesto attuale. Tutti questi elementi hanno confluito a porre in essere una piattaforma epistemologica che, su basi aggiornate e rinnovate e grazie al dialogo tra concezioni classiche e innovazioni moderne, si è continuamente arricchita degli apporti dei numerosi interessi coltivati nel corso della sua intera vita: lo studio della matematica, dell’astronomia, delle scienze naturali, della medicina, della musica, ma in particolar modo della teologia e della filosofia della storia. Infatti, si sforzava di approfondire il rapporto tra fede e storia, dunque tra Chiesa e mondo, senza con ciò pigiare il senso della trascendenza. Era sempre collegato a Dio. Era vitalmente, non solo nominalmente, uomo di elevata spiritualità. Se è vero che, come ha scritto M. D. Chenu, i sistemi teologici del passato erano dei grandi sistemi di spiritualità, e che la teologia autentica è propriamente un fattore di vita spirituale, mons. Sprovieri può essere considerato, a pieno titolo, un eminente esponente di questa teologia viva, che si invera in una dimensione spirituale, in una scuola di preghiera. Proprio oggi ci si augura che la teologia dogmatica diventi più mistica che astratta. A riguardo, scriveva Karl Rahner: “Il cristianesimo del futuro, o sarà mistico, o non sarà”. Tutta la sua vita ha avuto un’ispirazione mistica! È noto come Bergson abbia fondato una sua prova della stessa esistenza di Dio nell’esperienza che di Dio hanno fatto i grandi mistici cristiani. Si tratta di una intuizione molto felice che implica in termini teologici che, questi, hanno compreso appieno la logica dell’incarnazione: cioè una disposizione cristocentrica di auto-trascendenza per un’esperienza fruitiva di Dio e delle sue profondità. E don Serafino, sulla scia della migliore tradizione agiografica, fu innamorato di Cristo, e cercò di conformarsi a Lui nell’esistenza, di imitarlo e seguirlo assimilandone lo spirito. Tutto il percorso mistico-spirituale di mons. Sprovieri, seguendo l’assioma dei santi “Ad Iesum per Mariam”, è stato un continuo avanzare verso Gesù, fino alla identificazione con Lui. Era un candido don Serafino ed aveva una vita trasparente ed ubbidiente che si è espressa non con allineamenti supini alle disposizioni del capo di turno, ma col gaudio di chi si è divertito a instradarsi sulle orme di Gesù, uomo libero che fu ubbidiente fino alla morte. Una vita lineare fu la sua: sapeva soffrire senza mai far soffrire. Non fu mai un appiattito e si esaltava dell’amicizia. In sintesi, era un pudico ad oltranza. Le cellule germinative di questo percorso vanno ricercate nel suo spirito di orazione. Era nella preghiera il segreto del suo vivere austero, operoso, forte e tenero. Mons. Sprovieri è vissuto ed è morto pregando. Era persuaso che la nostra sufficienza per il Regno di Dio ha radici nella preghiera. In qualche modo, egli prese alla lettera l’espressione di Evagrio Pontico: “Chi è cristiano prega e chi prega è cristiano”.  Ogni giorno aveva la sua meditazione, la sua orazione eucaristica, il suo rosario. Preghiera da intendere soprattutto come contemplazione sostanziata dalla parola di Dio, amata, venerata, letta e “ruminata” come diceva Sant’Ambrogio. In questa prospettiva misterica della presenzialità di Dio nella Parola, la pedagogia dell’ascolto è frutto di impegno ascetico, faticoso e paziente ed esige la capacità del silenzio, grembo materno della Parola e spazio vitale per l’accoglienza della grazia. Sì, Dio è in verità, per don Serafino, silenzio e parola: un silenzio muto e sordo, un silenzio che è un modo di comunicare altro rispetto alla parola, un modo che in determinate circostanze può rilevarsi più efficace ed eloquente di qualsiasi discorso. La Parola di Dio resta inscritta nel suo grande silenzio e in esso trova la propria origine e la propria leggibilità. Il P. de Lubac, stimato ecclesiologo francese, definisce questo principio – ravvisabile nella spiritualità di don Serafino – il mistero di Cristo e della Chiesa in quanto si riproduce realmente nell’anima e nella vita del fedele . Perciò si può tranquillamente parlare di primato di Dio nella sua vita. Moltissime delle sue Lettera pastorali – a prescindere dai diversi temi trattati – suggeriscono l’urgenza di mettersi alla ricerca di forme concrete per far comprendere e vivere l’azione e il primato di Dio nella quotidianità dell’umano. Era solito accompagnare i grandi eventi diocesani con le lettere pastorali che rivelavano ai fedeli l’ansia del pastore. Infatti, giungevano sempre puntuali e precise e livellavano sul magistero della Chiesa il rapporto esistenziale di crescita per l’avvento del Regno. Talvolta le affermazioni si prestavano a vivace confronto e creando capannelli di idee offrivano sempre attenzione ai punti determinanti della fede. Da esse scaturiva una formazione sistematica che in un approfondimento personalizzato produceva rigenerazione. Infatti, sia a Rossano che a Benevento, esse acquisirono un tono di incisiva presenza nel contesto specifico di popoli in crescita, bisognosi di un sostanziale nutrimento. Significativa e, con risonanza nazionale, fu la trilogia in preparazione al Grande Giubileo del 2000. Un pastore dunque ma anche un dottore in cui intelligenza e santità si sono compenetrate come nei grandi geni cristiani dell’epoca patristica. I suoi scritti e alcune sue intuizioni rivelano il suo essere esteta di Dio, cantore di Maria e amante dell’umano.  La Sua non fu un’estetica emotiva, quanto un oltre-passamento del percettibile per un approdo nel definitivo. Il percorso da lui privilegiato per accogliere nella fede il disvelamento di Dio, infatti, è stato l’itinerarium hominis in Deum, parafrasando così l’assioma bonaventuriano. E non poteva essere altrimenti, considerato che l’uomo, per la fede cristiana, è creato ad immagine di Dio, e, quindi, deriva da Dio nella sua genesi e nel suo destino. Alla luce di queste considerazioni, si coglie, in maniera nitida, che il suo immenso amore per lo studio delle scienze sacre ha sempre rinvenuto i fondamenti in tre principi rilevanti quali la misericordia illimitata di Dio Padre, la forza pneumatica dello Spirito santo e primariamente la disponibilità amabile verso Gesù Cristo e sua Madre Maria santissima. La figura di Maria per lui era effettivamente l’andirivieni obbligato attraverso il quale si giunge allo stupore di Dio. La Madre del Signore è il filamento speciale che sottende l’intera sua vita e ne illustra il senso e la portata. Tutte le volte che don Serafino ha cercato un modo determinante ed efficace di accostarsi come Chiesa al suo popolo ha sentito il bisogno di passare attraverso Maria. L’amore a Maria era espresso da quella corona che costantemente, notte e giorno, pendeva dalle sue dita. Nell’ambito mariano viveva una salutare e continua rigenerazione. Vivamente impegnato ad accendere nel cuore dei suoi la stessa fiamma mariana che gli bruciava dentro, non esitò un momento nel preparare straordinari anni mariani a Rossano prima e a Benevento dopo. Il suo volto si trasfigurava quando parlava di Maria! Abbandonava tutti gli affanni quando organizzava qualcosa in Suo onore. Ha avuto il coraggio e l’ambizione, per amore alla Vergine, di cimentarsi anche con il mondo dell’esegesi testuale: interessante la sua interpretazione del Magnificat, che nella riscoperta della sua essenza antropologica e sociale, ha accordato apprezzabile impulso alla ascesa degli ultimi, di cui Maria, si svela sempre più prototipo ed espressione privilegiata. Appare nella profezia e nel canto di Maria quello che don Serafino, sulla stessa linea d’onda coi teologi dell’America latina, ha chiamato la “teologia del rovescio della storia”. All’Achiropita prima e, alla Castellana Madre dell’antico Sannio, poi, ha dedicato ghiotte pagine di teologia liricizzata in accenti vibranti, nei quali ha saputo tradurre la sua profonda venerazione per la “Tutta-Grazia”, che è l’originale nome di Maria, perché quello datole direttamente da Dio. In suo onore ha rimeditato ogni forma di devozione mariana, componendo preghiere e canti che ritraggono l’incisivo intervento del suo magistero sulla religiosità popolare. Mi piace ricordare a riguardo, l’inno all’Achiropita, composto e musicato, per l’anno mariano del 1983. In quel cantico tutto appare personale ed immediato, da risulta¬re ancor oggi la eco delle emozioni gioiose che tumultuarono nel cuo¬re felice della giovinetta nazaretana. Mi ripeteva spesso di aver letto in un libro del Beato Rosmini: “in gremio matris sapientia Patris” che cioè nel grembo della madre si rivela la sapienza del padre, se volete, l’amore del padre. Cioè Maria rivela il mistero del Padre. E lui, percepiva di essere il Padre che doveva provvedere a tutti i bisogni dei figli. Il suo fu un episcopato benedetto, perciò prolifico: ha ordinato tanti preti e due vescovi. I suoi gesti non erano palliativi, ma tendevano a cambiare le situazioni che gli passavano accanto. Ogniqualvolta veniva ponderata una esigenza la macchina veniva messa in moto per attuare le previste iniziative. Per la carità non era mai stanco. Questo spirito animatore dava senso alla sua storia minuscola, rendendola tempo e luogo di salvezza, cioè di amore per tanti fratelli. Era capace di illuminare i giorni di grigiore, facendo splendere l’intervento del Signore, al di là di una triste quiescenza ad un certo fatalismo che rende i giorni sempre eguali. Nella sua quotidianità non c’era superficialità, né retorica, ma tutto era riferito all’Amore che ispirava la sua offerta, i suoi pensieri, le sue opere. La fatica diventava sollievo perché fatta nell’amore di Cristo che ha dato la sua vita per la salvezza. Così sapeva adattarsi e ripiegarsi nell’intento di recuperare le energie che meglio avrebbero potuto arrecare benefici alla comunità. Il costo umano delle varie iniziative da lui compiute non era mai calcolato, ma diventava il propellente per l’efficacia di numerose attività. Ed era convinto che nella carità bisognava essere presenti in prima persona, e cercava di evitare in ogni modo le deleghe. Della bontà della sua esistenza, il segno più evidente è il suo distacco dai beni terreni, incarnato nella sobrietà di vita e nella generosità che ha sempre dimostrato in favore dei più poveri. Chi è incontrato da Dio, come don Serafino, è naturalmente aperto agli uomini. Si presentava con semplicità, ma le cose che diceva, sempre meditate e stimolanti, riflettevano il rigore dei suoi studi, era autorevole nel parlare, ma accogliente nei modi. Quando dialogava ascoltava: non sentenziava, ma ricercava di comprendere l’interlocutore, con un portamento assai mite e aperto, che realmente conquistava. Mi ricordava molto cosa diceva del dialogo il filosofo neoebraico e personalista Martin Buber, marcando la rilevanza di uniformarsi nella persona che si ha di fronte e di essere sé stessi in quanto dialoganti. Un episcopato bello fino in fondo “esteros” direbbe l’evangelista Giovanni, è stato quello di don Serafino! Anche nei momenti di commiato – Rossano e Benevento – non ci furono lacrime nei saluti, ma tanta sicurezza, nella fiducia che i fermenti, sparsi a larghe mani, avrebbero prodotto un’abbondanza di raccolto. La sua andatura è stata sempre intrisa di grande purezza, di quella purezza di spirito che fa grandi gli uomini pur se lontani dalla ribalta. L’episcopato per Lui non è stato interpretato come un fatto gratulatorio o una chiamata ascensionale, ma come evento scomodante, che richiede un abbassamento verso le sofferenze del mondo. Tenne sempre a debita distanza le lusinghe della carriera, desideroso soltanto delle affermazioni dell’unico Signore del quale, in vita, ha indossato la livrea. Egli, in breve, era alieno alle glorie del mondo. In questo abita la verità della sua santità. Già il santo curato d’Ars diceva che “Dove i santi passano, Dio passa con loro”. Indubbiamente attraverso la straordinaria testimonianza di don Serafino, Dio continua a parlarci o, meglio ancora, ad interpellarci. Per questo i mistici sono gli ideali evangelizzatori nel mondo postmoderno, dove si vive “etsi Deus non daretur”! Scrive il noto teologo sistematico Giuseppe Lorizio:“Guardare alle figure più luminose della testimonianza cristiana significa guardare a esistenze cristiane riuscite, perché sono state capaci di dire la speranza cristiana che le animava. E se sono a noi vicine nel tempo, ci offrono un incoraggiamento più vivo, uno stimolo più forte a dare oggi la nostra buona testimonianza” . Ecco, allora, che il suo fulgido esempio costituisce un incoraggiamento a non stancarci di pregare, essendo proprio la preghiera e l’ascolto di Dio l’anima dell’autentica santità. Proprio perché il suo lascito non vada perduto mi piace concludere con un’espressione cara alla tradizione liturgica ortodossa “Eterna sia la sua memoria”! Ora don Serafino si è ricongiunto con la sorella Divina! Insieme, già godono il frutto maturo della speranza del cielo. La tempesta che l’ha rapito è passata perché il sole del mattino di Pasqua, ci fa già intravedere, sul suo capo che ancora profuma di crisma, l’aureola della santità. Il suo ricordo, pertanto, ci sia d’invito a guardare verso l’Alto ed a servire fedelmente il Signore e la Chiesa, come lui ha fatto durante il suo lungo ministero. Ci conforti in questo il Signore Gesù con la forza della Parola e dell’Eucaristia. E la vita di don Serafino intrisa di Spirito Santo ci tracci la via a percorrere le strade più opportune per santificare il mondo. Riposa in pace Don Serafino e insieme a mamma Divina, ricordaci tutti al Signore.
 
Fonte: www.giovaniminimi.it

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