Di Nunzio Raimondi- Professore

 

Lettera aperta al cardinale Gianfranco Ravasi

Eminenza, certamente non ho ben compreso il suo pensiero e di ciò anticipatamente mi scuso. Ma, in relazione alle sue dichiarazioni, rese a svariate reti televisive locali a margine della cerimonia di consegna della laurea honoris causa svoltasi presso l'Università degli Studi "Mediterranea" di Reggio Calabria, mi è parso di comprendere che vostra eminenza abbia posto marcatamente l'accento sulla necessità di una netta distinzione fra criminalità e religione.

In particolare, mi è parso che si sia fatto riferimento a "fenomeni", quali la mafia o la 'ndrangheta, che particolarmente infestano i nostri territori anche se – come è noto – svariate sentenze definitive ne attestano, ormai da tempo, la presenza e la dimensione nazionale e sovranazionale. A tal proposito mi preme svolgere alcune essenziali precisazioni che, se lo riterrà, mi farebbe piacere trovassero un puntuale riscontro. Mi riferisco al rapporto fra giustizia e religione, più propriamente all'approccio che la Chiesa cattolica debba ricercare rispetto ai fenomeni di deviazione criminale. Mentre, infatti, allo Stato, nelle sue diverse articolazioni, esecutive e giudiziarie, compete di prevenire e reprimere il crimine, non così – a mio modo di vedere – è per la Chiesa cattolica. Noi cristiani – come vostra eminenza insegna – abbiamo un'altra stella polare, non la giustizia umana ma la misericordia divina. Affermare, dunque, che Chiesa e Stato stanno e devono stare dalla stessa parte contro il crimine, è, da un lato, una ovvietà; ma, se dal crimine volgiamo lo sguardo sul criminale, dall'errore all'errante, ecco che l'approccio cambia. Lo sguardo misericordioso della Chiesa verso l'uomo in errore non può essere travisato per accondiscendenza verso il crimine. Né per evitare che ciò avvenga la Chiesa deve mettersi in marcia nei cortei antimafia, associarsi ai proclami delle Procure, schierarsi contro l'uomo e non per l'uomo. Né servendo il perdono e la misericordia, doni gratuiti di Dio, la Chiesa può essere sospettata (o additata) di favorire – detto fuor di metafora – la criminalità. Allo stesso modo, atti di pietà popolare (alimento della fede per i semplici, ai quali in primo luogo è rivolta la parola di Dio) possono essere necessariamente additati, nei nostri tormentati territori, come espressione di strumentalizzazione della fede, o peggio, come atti di idolatria. Oltre – e diversamente – dall'apprezzabile tentativo delle forze dell'ordine (altra cosa è la magistratura che non è affatto combattente ma soltanto chiamata ad attuare e applicare leggi con le quali lo Stato combatte non il crimine ma i criminali) di estirpare dalle nostre terre la malapianta della criminalità organizzata, c'è spazio per l'azione potente della Chiesa missionaria in cammino nell'annunziare la lieta novella: Surrexit Domine, Alleluja! Veda, signor cardinale, guai a noi cristiani se ci allineiamo pronti a lapidare; potrebbe presentarsi il nostro Signore a ripetere: chi è, dunque, senza peccato scagli la prima pietra! È invece nostro compito comprendere, avvicinarci all'adultera, al fariseo, al banco delle tasse, ai reietti, ai diseredati, agli ultimi e ai condannati, agli accusati dei peggiori crimini, portando loro la luce della Parola di Dio. Sono loro, oltre ai poveri, i nostri fratelli prediletti; l'uomo in errore è principalmente il nostro compagno di viaggio. Non spetta a noi, quindi, eminenza reverendissima, puntare il dito né giudicare il prossimo. A tal proposito la Chiesa, madre e maestra, può insegnare prudenza: virtù cristiana questa che impone equilibrio e discernimento.  Prima di dire – come spesso e assai sorprendentemente si sente affermare da alti magistrati in conferenze stampa – quasi anticipazione mediatica di sentenze – convocate per magnificare arresti e misure non ancora convalidate da giudizi definitivi di merito – «quello che abbiamo acciuffato è un mafioso», oppure ecco, «biasimate il ladro, vi presentiamo il corruttore o il corrotto», occorrerebbe avvertire che la persona umana ha una dignità che supera perfino quella affermata dalle laicissime costituzioni, egli possiede la dignità di figlio di Dio! E questa dignità non tollera di essere calpestata nemmeno sull'altare della efficienza dello Stato nella lotta al crimine: essa deve essere misurata sulla persona umana di cui la Chiesa è sempre stata, e deve seguitare a essere, gelosa e inflessibile custode. In questo tempo di giustizialismo sfrenato che spesso trasmoda in un legalismo di maniera, nel quale si chiede di schierarsi profondendosi in pre-giudizi assertivi simili più a un'ordalia che a uno Stato di diritto, la Chiesa seguiti, dunque, a mostrare il volto misericordioso di Dio, chinandosi sulle ferite dell'umanità per assumere su di sé la miseria e il peccato, senza che si riunisca il Sinedrio per crocifiggere di nuovo il segno di contraddizione.{jcomments on}

Nunzio Raimondi - Professore

 

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