di P. Giovanni Cozzolino, O.M.

Viviamo in un’epoca di “passioni tiepide”, non “tristi”, ma piuttosto: “disincantate”., interpretate con realismo, in particolare dai giovani, abituati a proiettare il futuro nel loro sguardo, e a orientare il nostro, perché i giovani “sono” il futuro.

È l’immagine suggerita dal sondaggio dell’Osservatorio di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi e proposto su Repubblica in questi giorni. In realtà, la società, e soprattutto i giovani, si sono abituati al clima di sfiducia che grava su di noi, ormai da troppi anni, e così, lo attraversano senza troppa paura. In particolare, i “giovani-adulti” (secondo i demografi), la “generazione del millennio”, secondo l’Istat. Insomma, coloro che hanno fra 25 e 36 anni e stanno a metà fra giovinezza ed età adulta. E cumulano l’insicurezza di chi ha di fronte un futuro carico di incognite e la sicurezza di chi i problemi del futuro ha iniziato a sperimentarli: è la metafora di una società che non accetta di invecchiare, dove tanti, quasi tutti, vorrebbero restare “per sempre giovani”, a costo di protrarre all’infinito le incertezze degli adolescenti. È un aspetto che si era già osservato altre volte, in passato, ma oggi si ripropone, in modo più marcato. La giovinezza, secondo gli italiani, si allunga sempre più: quanto più gli anni passano. Fra coloro che non superano i 36 anni, la giovinezza finisce poco più avanti: a 42 anni, poi, via via che gli anni passano, anche la giovinezza si allunga. Parallelamente, si allontana anche la soglia della vecchiaia: tanto che, secondo i più anziani, cioè i “meno giovani”, si diventa “vecchi” solo dopo aver compiuto 80 anni. Non è una novità: la nostalgia della giovinezza spinge a negare la vecchiaia e induce ad accettare di essere vecchi… solo dopo la morte. Così si afferma la vecchiaia come dis-valore: significa negare l’importanza dell’esperienza, la maturità e d’altra parte, l’età adulta si restringe sempre di più. Così, la nostra biografia accosta e oppone gioventù e vecchiaia, una accanto all’altra e riduce l’età adulta a un passaggio rapido, quasi occasionale. “Diventare grandi”, una promessa attesa, quando si era bambini, oggi appare quasi una minaccia. Le fratture generazionali, così, appaiono meno evidenti e meno marcate di un tempo. Alla fine degli anni Novanta, i giovani una erano definiti “Generazione invisibile”, per sottolineare la progressiva marginalità dei giovani, ma, ancor più, la loro coerenza con gli orientamenti degli… adulti, o meglio, dei genitori, al punto da non coglierne più le distanze. Cioè: le specificità generazionali. D’altronde, gli anni delle contestazioni sociali, ma prima ancora, familiari – dei figli contro i genitori – erano lontani. In seguito, non si sono più riproposte. Anzi: i genitori, la famiglia, sono divenuti l’appiglio che permette ai figli di condurre la loro transizione infinita all’età adulta. Si spiega soprattutto così l’importanza attribuita dai più giovani ai rapporti con la famiglia, ma soprattutto all’indipendenza e all’autonomia: tre su quattro, fra quanti hanno fino a 24 anni, li considerano molto importanti. Nel 2003 erano poco più di uno su due, e ciò è segno evidente che il sostegno della famiglia è necessario, ma, al tempo stesso, aumenta, la domanda di in-dipendenza, di crescere, auto- realizzarsi, di affermarsi e “fare carriera”. E ciò è l’ obiettivo ambìto dal 41% dei più giovani: quasi 10 punti in più rispetto ai primi anni 2000. Una speranza che, per essere realizzata, li spinge a guardare – e andare – altrove: i più giovani, insieme ai giovani-adulti sono la generazione della rete, la generazione più globalizzata, abituati a comunicare a distanza e a orientarsi verso “altrove”, sostenuti dai genitori e dai nonni. Per questo non riescono a sfuggire al senso di solitudine, che grava su tutta la società. Certo, i giovani-più-giovani sono sostenuti e aiutati da reti amicali più fitte, ma i loro fratelli maggiori, i giovani-adulti, la “generazione del millennio”, ne soffrono più degli altri. Nel sondaggio di Demos-Coop, il 39% di essi, quasi 4 su 10, ammettono di “sentirsi soli”. D’altra parte, internet e i social media permettono di restare sempre in contatto con gli altri, gli amici: ma sei tu, davanti al tuo schermo, da solo, oppure in mezzo agli altri a comunicare da solo, con il proprio smartphone. Così, le passioni non diventano “tristi”, ma più tiepide, perché le stesse “fedi” sbiadiscono e si perdono. La politica non interessa più quasi a nessuno, anche fra i più giovani, presso i quali la componente che considera importante la politica non va oltre il 14%: poco sopra alla media generale. Sono lontani i tempi della “contestazione”: la stessa “generazione dell’impegno” – del ’68 – appare disillusa. Insomma, non c’è più fede, soprattutto fra i più giovani. Lo ha spiegato Franco Garelli, studioso delle religioni giustamente ri-conosciuto, in un testo dal titolo esplicito: “Piccoli atei crescono” (Il Mulino, 2016). L’indagine di Demos- Coop lo conferma, visto che la religione è ritenuta importante solo dal 7% della “generazione della rete”: un quarto, rispetto alla popolazione nell’insieme e meno di un terzo rispetto al 2003. In altri termini, “non c’è più religione”, soprattutto fra i più giovani e così, diventa difficile provare “passioni”, accese e perfino tristi e, così, prevale il disincanto. E le passioni si raffreddano, divengono tiepide. Eppure conviene “credere” nei giovani, perché, comunque, più di tutti gli altri, “credono” nell’Europa, perché sono il nostro futuro, e, più di tutti gli altri, “credono” nel futuro.

 (liberamente adattato da Repubblica.it)

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