Francesco  Pometti

Mi sovviene d’un pensiero leopardiano, nel quale si sostiene che, a scorrere la vita degli uomini illustri, se ne trovano veramente tanti, i quali hanno perso il padre nella prima età.

A Francesco Pometti, che era nato l’8 gennaio del 1862, nel rione della Cavallerizza, tale sorte toccò all’età di dieci anni. Certo, con un papà, modesto commerciante di tessuti, e con una madre casalinga, non avrebbe camminato sul velluto, ma, almeno, avrebbe avuto, nel suo paese, una vita di ordinaria povertà e non di stenti. Andò a lavorare da subito presso la bottega di barbiere dello zio, un buon uomo, che, insieme alla paghetta, diede a Francesco anche un mestiere, senz’altro utile per il futuro. Ed il piccolo, consapevole della sua condizione, imparò presto a far barba e capelli, ma nei ritagli avidamente studiava e leggeva tutto ciò che gli capitasse. Frequentò solo poche classi delle scuole elementari; poi, la patente di insegnante, nonché la licenza ginnasiale e, poi, la maturità classica, le conseguì, lodatissimo, da studente privatista, contestualmente facendo l’istitutore ed il maestro nei convitti di Castrovillari e di Napoli. Nella città partenopea intraprese anche gli studi universitari in lettere.

V’era giunto a ventitré anni, con una valigia di cartone, piena di sogni e di sdegni. In paese aveva lasciato la cara madre, ma di essa, angelo custode ed amore più grande della sua vita, portò la bella immagine, dovunque e sempre, insieme  ai consigli e ad un monito: “È questa la vita, figlio mio. Quando si lotta per un’idea, le sconfitte non si contano. Si va avanti e si spera e si vuole. Chi cade, lottando, e si rialza, è destinato a vincere; chi si accascia alle prime avversità, non riuscirà a nulla”. Dimorò a Napoli otto anni, fino al 1893, lavorando e studiando in maniera disperata. Qui amò e fu profondamente riamato, qui conobbe tanti ed ebbe buoni amici, ma sui rapporti, anche quelli più teneri, pesò come una maledizione: il timore che gli affetti e gli amori lo rapissero a tal punto da distoglierlo dal traguardo della laurea e del successo. Perciò, la fuga da Napoli ed il trasferimento a Roma, dove conseguì la laurea ed, in seguito, la libera docenza. Finalmente, lui, Francesco Pometti, di umile famiglia, orfano e già barbiere, dopo anni di ansie e di studio, nel 1903, è un cattedratico. Nell’espletamento della funzione docente fu oltremodo scrupoloso e nella stessa misura rigoroso e ciò gli procurò, insieme alla stima, anche odi e dolori. Riteneva che lo studio fosse strumento di riscatto e di crescita e che nessuno sconto, perciò, andasse fatto ai giovani, nel loro interesse. Era fuori dal tempo. Corruzione e falso riformismo già avanzavano prepotenti. Cedette ad un attacco di cuore la notte del 18 gennaio del 1911, a 49 anni. Il lavoro e le ansie, nonché l’eterna scommessa con la vita, ne avevano segnato il destino. Lasciò a Roma la moglie ed una  figlia e a Corigliano la madre. Se ebbe il tempo, prima di spegnersi, di ripensare a chi gli aveva voluto bene, di certo rivide anche il volto d’una suora, che, durante un ricovero ospedaliero a Napoli, gli aveva dato assistenza ed affetto. Alle esequie romane partecipò l’allora Ministro alla pubblica istruzione; Corigliano lo commemorò nei locali del ginnasio e, più tardi, gli intitolò una strada ed, opportunamente, la biblioteca comunale. Di lui restano racconti e saggi storici, insieme all’esempio della perseveranza e dell’onestà.

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