Caro direttore presto andrà in stampa il mio libro, che partendo da fatti realmente accaduti, cerca di portare all’attenzione del lettore quelli che, secondo me, possono essere stati le concause socio culturali e antropologiche del triste e inaccettabile fenomeno delle molteplici violenze sulle donne.
Certo è un fenomeno diffuso anche in altri paesi Europei, che però rimane una specificità nel nostro Paese, va sottolineato come la maggior parte delle violenze avvengono in ambito familiare e tra giovani spesso minorenni. In attesa che il libro, di prossima pubblicazione, possa contribuire a stimolare, anche da noi, un ampio confronto a tutti i livelli su questo vergognoso e attualissimo fenomeno, ti prego di volere pubblicare il seguente articolo segnalatomi dall’amica giornalista Luciana Mella.
Con dovuta stima Giuseppe Sammarro
Fonte: www.pressenza.com
Mascolinità tossica, regime di guerra e femminicidi - 14.04.25 - Roberta Pompili - Redazione Italia
Nell’Italia degli ultimi anni, l’aumento dei femminicidi – in particolare tra le giovani donne – non è un fenomeno isolato, ma il sintomo di una crisi sistemica che affonda le radici nella collisione tra un modello neoliberale mercificatore di corpi e relazioni, una scuola gerarchizzata e militarizzata, e l’ascesa di una mascolinità tossica alimentata dalle echo chamber digitali. Questa spirale di violenza, come sostiene Wendy Brown in In the Ruins of Neoliberalism, è l’esito di un neoliberalismo autoritario che trasforma il risentimento in governance, sostituendo la solidarietà con la competizione armata e il welfare con la sorveglianza. Il neoliberismo ha ridotto il desiderio a merce, imprigionando gli uomini – specialmente i giovani – in aspettative impossibili: vincenti sul lavoro, dominanti nelle relazioni, fisicamente prestanti. Quando il fallimento irrompe – disoccupazione, rifiuti sentimentali, inadeguatezza agli standard estetici – la frustrazione si trasfigura in quell’aggrieved entitlement di cui parla Michael Kimmel: la convinzione di essere stati privati di un diritto che si crede naturale, il dominio maschile, eroso dall’emancipazione femminile e dalla precarietà economica. Questa rabbia trova nelle comunità digitali un laboratorio di radicalizzazione. Molti studi dimostrano come i forum incel non siano solo raduni di sconfitti, ma tribù organizzate attorno a rituali simbolici – il gergo cifrato (blackpill, femoidi), i martirologi condivisi (The Day of the Rope) – che trasformano la solitudine in ideologia. David Ging ed Eugenia Siapera spiegano come questi spazi rielaborino miti arcaici della mascolinità (l’eroe guerriero, il predatore sessuale) in forme distorte, adatte alla solitudine postmoderna. Gli algoritmi delle piattaforme, analizzati da Tiziana Terranova come macchine di cattura affettiva, amplificano la deriva: più contenuti misogini si consumano, più se ne ricevono, in un loop che converte la disperazione in odio strutturato. Il caso di Filippo Turetta, assassino di Giulia Cecchettin, incarnazione di questa logica, rivela come la violenza sia spesso premeditata, nutrita da un immaginario collettivo che disumanizza le donne, trasformando il rifiuto in “tradimento”. Se le comunità digitali radicalizzano, la scuola neoliberale prepara il terreno: il modello della scuola-azienda – con la sua ossessione per ranking, competizione e disciplina – normalizza l’idea che la vita sia una guerra. Sport violenti, classifiche di merito e punizioni esemplari forgiano soggetti abituati a leggere i rapporti umani attraverso logiche di dominio. Chi non si adatta – ragazzi timidi, sensibili, non allineati ai canoni virilisti – viene emarginato, alimentando il risentimento di chi si percepisce escluso non solo dalle relazioni romantiche, ma da un sistema che celebra solo i vincenti. La svolta autoritaria recente del ministro Valditara – con le nuove linee guida per l’educazione civica e le indicazioni nazionali, cariche di retorica coloniale e nazionalista, e con la reintroduzione della complementarità di genere – aggrava la crisi: legittimando ruoli “naturali” sessisti, trasforma la scuola in una caserma del patriarcato, come nota Silvia Federici rileggendo la caccia alle streghe in chiave contemporanea. A completare il quadro, nel contesto internazionale segnato dal regime di guerra e retoriche securitarie, i progetti educativi finanziati dal Ministero della Difesa – addestramenti paramilitari nell’alternanza scuola- lavoro e interventi alla educazione alla legalità e cybersecurity permeati da orientamenti razzisti e nazionalisti – riflettono quella che Ghassan Hage definisce sindrome della fortezza: un’ossessione per confini e purezza che maschera il declino della mascolinità tradizionale. Gli uomini, esautorati dal ruolo tradizionale di protettori della famiglia nel processo di trasformazione di quest’ultima, diventano soldati di una patria immaginaria, pronti a difenderla da minacce esterne (donne emancipate, migranti, LGBTQ+), in linea con la necropolitica di Mbembe, dove la guerra diventa tecnologia ordinaria di governo. L’aumento dei femminicidi tra giovani donne da parte di coetanei o ex partner, come nei due recenti casi di Sara Campanella e Ilaria Sula, dimostra come le nuove generazioni stiano sempre più interiorizzando forme regressive di maschilismo radicalizzato. Il patriarcato neoliberale si presenta oggi non più come un retaggio del passato, ma come una costruzione rinnovata, tecnologicamente mediatizzata e politicamente legittimata. La violenza, dunque, diventa non solo un’azione individuale, ma un prodotto di un sistema che rafforza la disuguaglianza di genere come naturale, tanto nelle relazioni intime quanto nel contesto sociale e politico. I dati italiani sono implacabili: l’Osservatorio Nazionale di Non Una di Meno ha registrato 114 casi di femminicidi, lesbicidi e trans*cidi nel 2024, spesso per mano di ex partner o amici respinti. Questi femminicidi non sono raptus, ma l’esito di una cultura che colpevolizza le donne per la loro autonomia (“provocazione”), assolve gli uomini (“bravo ragazzo”) e mantiene un sistema giudiziario patriarcale, in cui, ad esempio, solo una piccola parte delle denunce per stalking porta a condanne. Come scrive Raewyn Connell, la mascolinità egemonica non danneggia solo le donne, ma intrappola gli uomini in ruoli disumanizzanti. Spezzare questa spirale richiede una riconversione radicale: abbandonare il modello scolastico aziendalista per una pedagogia della cura, regolare gli algoritmi misogini, combattere la precarietà con il welfare e promuovere mascolinità non tossiche. La posta in gioco, come ricorda Judith Butler, è riconoscere che la violenza è sempre un fallimento del mondo. Costruire mondi alternativi passa dal rendere la scuola non caserma, ma laboratorio di umanità possibile.