Vincenzo  Valente

I contemporanei lo dissero buono e simpatico in un fisico inelegante e tozzo. La faccia asimmetrica e gli occhialoni da miope, insieme ai grossi mustacchi, gli conferirono una espressione severa.

Essenziale nei modi, fu naturalmente gioviale in famiglia e con gli amici, ma rapidamente s’accendeva, se si discuteva di arte e di musica. All’occorrenza, sferzò i cantanti impreparati e non esitò a mettere alla berlina i critici presuntuosi. Fu senz’altro uomo intelligente e mai seppe o volle arricchirsi. Vincenzo Valente nacque a Corigliano il 21 febbraio del 1855, ma qui stette poco. Per assecondare, infatti, la sua inclinazione, i genitori acconsentirono di mandarlo, fanciullo ancora, a studiare musica nella bella Napoli, presso una scuola, allora, abbastanza accreditata. E lui, da  subito, non tradì di certo le aspettative familiari, se, appena quindicenne, pensò di cimentarsi nella composizione di due messe, operazione non facile, e di qualche canzone, le quali cose furono tali da rivelarlo al pubblico. Più tardi, nel 1879, mise su famiglia e nel 1910, si trasferì in Francia, tra Parigi e Marsiglia, dove insegnò e diresse una orchestra. V’era andato con tante speranze, ma vi rimase poco.

Ripartì deluso e senza quattrini. Napoli, ormai, con le sue particolari atmosfere, era per lui la città ideale. Di essa il Valente aveva capito il cuore ed i Napoletani lo ricambiavano, trattandolo con familiarità ed assicurandogli il successo. Dicono che nella primavera del 1884, quando in città imperversava il terribile colera, la gente si tenesse su, canticchiando le sue canzoni. Di canzoni, alla fine, ne musicò circa quattrocento, su testi di poeti del calibro di Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo, ma compose anche undici operette e qualche macchietta. Di certo, contribuì alla fioritura della canzone napoletana ed alla innovazione dell’operetta. Ne “La canzone napoletana”, a cura di Andrea Imperiali e Paolo Recalcati, trovo che “sul finire del secolo, un suo pezzo, su testo di Salvatore Di Giacomo, ’E ccerase (1888), insieme a Era de maggio, contribuisce a diffondere nel mondo un’immagine idilliaca di Napoli, luogo di eterna primavera”. Quando morì, il 6 settembre del 1921, dopo aver conosciuto il successo, ma anche l’ipocrisia delle grandi città, a Napoli era giorno di grande vigilia. L’indomani, ci sarebbe stato l’annuale festival di Piedigrotta, cosicché per le strade e nei café chantant si suonavano anche le sue musiche. Coincidenza strana, come strana, in fondo, è la vita. Il grande compositore se ne andava, mentre la città era in festa. A Corigliano era tornato una volta soltanto, dopo 45 anni, per tre giorni appena, il primo marzo del 1900, accolto dalle autorità e festeggiato  dagli amici e dal popolo. Forse, una tale accoglienza, così affettuosa ed intensa, non l’aveva messa in conto. Ne rimase commosso. Nel corso di una cena in suo onore presso il Casino d’Unione, tra un brindisi e l’altro, “anche il professore Maradea – scrisse Il Popolano – improvvisò per il maestro Valente due bellissime quartine, di cui il maestro rimase veramente entusiasta”. Tornato a Napoli, volle far giungere al presidente del Casino la sua “eterna gratitudine per la manifestazione d’affetto ricevuta”. Aveva trovato Corigliano un “paese incantato”. Più tardi, il suo nome venne dato all’antico cinema-teatro ed al largo antistante.

 

 

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