Nella foto il Palazzo Carusi-Bianco all'Acquanova

Domenico  Carusi

Negli anni, che, lentamente lo portarono alla giovinezza, Domenico ebbe vita facile e bella. Nella casa, antica e ricca, ove nacque, nella parte più storica del paese, il 20 luglio del 1770, in via Serratore, trovò, infatti, ogni sorta di bene e, soprattutto, una famiglia, che, al censo elevato univa il nome illustre e la considerazione.

 Potè permettersi, così, da giovane, un’ottima educazione, resa più ornata dalla presenza in casa di due zii sacerdoti e del papà avvocato. Anche lui si addottorò in legge, a Roma, e di là tornò in paese, nel 1793, con un bagaglio culturale sì solido che gli consentiva di spaziare dall’area umanistica alle lingue moderne. Nella grande città aveva fatto anche tante belle conoscenze, soprattutto, quale membro dell’Accademia dell’Arcadia.

A Corigliano mise su famiglia ed in essa, allietata da cinque figli, si completò con gioia. Intanto, l’espletamento dei primi incarichi lo rivela uomo intelligente ed onesto. Dal papà ereditò le buone virtù domestiche ed il senso dell’onore, nonché l’avversione per l’ambiente ducale locale, ma non l’attaccamento alla dinastia borbonica. Domenico Carusi, infatti, fece suoi, senza calcolo di tornaconto, gli ideali della rivoluzione e fu, sinceramente, filofrancese, pur rifuggendo qualsiasi forma di violenza e di settarismo. Quando iniziò, a Corigliano ed in Calabria, il decennio francese, nel 1806, per lui fu pressoché naturale passare all’impegno politico concreto, sicché ebbe incarichi delicati e di prestigio nei paesi vicini e fu, in ultimo, anche sindaco operoso di Corigliano.  Divenne, per quello che fece, persona ammirata e tenuta in conto, ma risvegliò anche le invidie e gli odi e, perciò, sopportò diffamazioni e violenze.  Più volte, i briganti gli bruciarono case e proprietà e gli saccheggiarono finanche l’abitazione in paese. Lui continuò dignitosamente per la sua strada, giacché pensava che delinquenza e brigantaggio andassero risolti nelle cause, promovendo il risanamento ambientale e l’agricoltura, l’istruzione ed il lavoro. E ciò lo rese sempre più credibile, tanto che, quando tornarono i Borboni, nel 1815, conservò integro il prestigio e fu investito, ancora, di onorifiche cariche. Stanchezza, forse, e delusione gli consigliarono di ridimensionare il suo impegno pubblico, a vantaggio dell’altro, nella cura degli affetti e del patrimonio familiare. Mentre gli avversari, intanto, continuarono ad infastidirlo con la subdola arma della diffamazione, il Carusi mantenne serenità e decoro, pago degli attestati di stima degli amici e delle autorità, nonché delle tenerezze della moglie e dei figli. Soprattutto, lo sostenne la fede in Dio, che gli impedì di scendere sul terreno della meschina vendetta. Arrivò, poi, il giorno della tragedia e del crollo: fu il 2 agosto del 1825, quando, nel cuore della notte, gli penetrarono in casa i briganti e gli uccisero il figlio Giuseppe. Era il secondogenito, laureando in legge e, come il papà, si dilettava di poesia. Immenso fu il dolore, senz’altro acuito dalla coscienza di non averlo meritato, e poco, per la verità, lo lenirono il trasferimento nel nuovo palazzo dell’Acquanova e le affettuose attenzioni degli amici. Il 27 agosto del 1829, nello strazio delle memorie, si sparò, infine, un colpo di fucile. Prima di morire, ebbe il tempo di affidarsi alla preghiera. Morì un galantuomo, irreprensibile in famiglia ed in pubblico, colto e religioso, aperto al nuovo ed, insieme, custode delle buone tradizioni. D’ogni cosa resta traccia nelle epistole e nei versi che scrisse e che io, ammesso dagli eredi nel suo archivio, ho avuto l’onore di leggere nella versione originale. Un giorno, in un momento di mestizia, paragonandosi ad un ruscello, disse, poetando: “Ruscello, noi sembriamo aver la stessa sorte, /con un corso veloce, noi andiamo l’uno e l’altro, /voi al mare, noi alla morte.” Voglio pensare che, prima di spegnersi, abbia recitato nel cuore il suo Miserere: “Pietà, mio Dio, se pur grave è il pondo/ dei falli miei, molto ancor maggiore/ sia tua bontade e d’ogni lezzo il cor/ rendimi mondo”.

 

 

 

 

 

 

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