di Francesco Campise *

I valori universali come la giustizia, la libertà e la dignità umana sono radicati in molte culture e possono essere un punto di partenza per costruire un mondo più giusto e pacifico. Riconoscere le radici comuni può facilitare la risoluzione dei conflitti, promuovendo il dialogo e la negoziazione.

Le radici comuni possono essere utilizzate per costruire società più inclusive, in cui tutte le persone si sentono valorizzate e partecipano attivamente alla vita della comunità. Sia il cristianesimo, con il comandamento di amare il prossimo come te stesso, sia l'ebraismo con l'idea di giustizia e misericordia, promuovono principi che possono favorire la convivenza pacifica. Eduardo Galeano diceva che “Non esiste la storia muta. Per quanto le diano fuoco, per quanto la frantumino, per quanto la falsificano, la storia umana si rifiuta di tacere.” Le radici comuni, intese come un patrimonio condiviso di valori, esperienze e identità, hanno spesso agito come un potente collante sociale, favorendo la cooperazione e l'unità tra gruppi e popoli diversi. L'antica Grecia e Roma hanno lasciato un'impronta indelebile sulla cultura, la filosofia e le istituzioni politiche di gran parte dell'Europa. Il diritto romano, ad esempio, è ancora oggi alla base dei sistemi giuridici di molti paesi europei. La diffusione del cristianesimo ha contribuito a creare un'identità comune tra i popoli europei, fornendo un sistema di valori condiviso e promuovendo la solidarietà tra i credenti. La Torah, il testo sacro dell'ebraismo, ha influenzato profondamente la cultura occidentale, fornendo un codice etico e morale che è stato adottato da molte altre religioni.  La diaspora ebraica ha portato alla diffusione della cultura ebraica in tutto il mondo, creando legami tra comunità ebraiche molto distanti tra loro. Voglio solo riprendere poche righe dell’ultimo libro del giornalista Toni Capuozzo, dove si parla della scomparsa della comunità ebraica di Gorizia e del cimitero ebraico di Nova Gorica. Le due città che sono quest’anno capitali europee della cultura. Sembrava che stesse parlando del Campo di internamento di Ferramonti di Tarsia. Gli ebrei nel giorno del Rosh ha Shanna, il capodanno ebraico, si liberavano simbolicamente dei propri peccati, gettando sassi nell’acqua che scorrendo, li portava lontano. Più in là c’è il cimitero di Valdirose. È la casa dei viventi. Qui c’è la memoria, il passato di una comunità scomparsa. Nel cimitero, quello che i fascisti chiamavano Lortaccio degli ebrei, sovrastato da una circonvallazione dove corre il traffico inevitabilmente indifferente, lapidi e cippi che il tempo ha levigato, scritte in ebraico, in tedesco, in italiano. Ogni tanto il comune fa tagliare l’erba, ma qui il tempo è come fermo, immobile, con un’intensità sconosciuta agli altri cimiteri, come un relitto del passato che rimane, incongruo sotto un cavalcavia, poco distante da un distributore di benzina, dai cartelloni che invitano al casinò. Forse è proprio quel senso di abbondono forse sono la pioggia e il vento che rendono anonime le pietre, il muschio che cresce, non i fiori, non le fotografie, non la ghiaia dei vialetti ordinati dei nostri cimiteri – a renderlo davvero la Casa dei viventi, il confine sconosciuto tra la vita e la morte, intrecciate per sempre. Ogni tanto un visitatore poggia un sasso su una delle tombe o lascia un biglietto, come nel muro del pianto a Gerusalemme, recita un occasionale El malei rachamin, la preghiera per l’anima del defunto.

* Studente

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