Fonte: Il 1966 nella “mia” città: Corigliano Calabro – Il Bar “La Castagna” - di Giovanni Scorzafave - Libreria Il Fondaco editrice
Nell’ignoto mondo dei miei incubi giovanili, quelli che hanno lasciato fino a pochi anni fa una scia bianca nella mia anima riguardavano, in particolare, i Ferragosto vissuti durante la gestione del bar di famiglia: “La Castagna”.
Erano dei veri e bizzarri incubi Kafkiani, che, in un crescendo di angoscia profonda, ma per altri versi anche di apparente “piacere”, nelle profonde pieghe del buio delle notti come tanti fantasmi per anni sbucavano dai muri del passato. La causa di quei sogni inquieti e soprattutto stravaganti era senza alcun dubbio da addebitare al grande stress lavorativo senza precedenti in cui si mettevano a dura prova le resistenze fisiche e mentali di tutta la mia famiglia durante quella giornata di metà agosto. Si trattava per tutti i miei familiari, in un perfetto stile olimpionico, di un continuo susseguirsi di corse, compresa quella ad “ostacoli” per le richieste strampalate di alcuni (pochi) clienti del nostro bar. Ad iniziare quelle corse, prive di qualsiasi pit stop, era sempre mia madre, donna dal fisico esile, ma dalla grinta di acciaio e dal cuore nobile, che, dopo appena due ore di sonno, molto prima che il sole comparisse sulla linea dell’orizzonte, completava velocemente il buon pranzo preparato in parte il giorno prima. Erano le solite tradizionali pietanze di Ferragosto: pasta al forno, melanzane ripiene, pollo con patate e peperoni e alcuni salumi. Nel frattempo, mio padre, un po’ più fortunato di lei solo per aver riposato qualche minuto in più, alle cinque in punto alzava le rumorose e pesanti serrande delle porte, dando, così, inizio alla nostra attività commerciale estiva in quel giorno istituito nel lontano18 a.C. dall’imperatore Augusto. Sistemati fuori i tavolini ed eseguite le opportune pulizie quotidiane, il mio genitore, grazie alla generosità di alcuni ingredienti (latte, zucchero, cacao, caffè), regalava momenti di euforia a quel cilindro di acciaio pronto per essere stimolato da una girevole pala elicoidale per produrre dell’ottimo gelato, mentre mia madre farciva una grande quantità di panini con salumi e formaggi, adagiandoli, poi, in alcuni cesti in vimini e coprendoli con un bianco lenzuolino ricamato di lino con cura come se fossero dei neonati. Le ombre del buio non si erano ancora diradate completamente quando già si presentavano alcuni clienti per avere un caffè, un cappuccino o altro, mentre la vecchia sveglia di famiglia, petulante come non mai, iniziava a brontolare con un suono forte e insistente, avvisando mio fratello Giorgio, ancora assonnato e leggermente irritato, di alzarsi dal letto per dare il suo indispensabile contributo nel mettersi in gioco per affrontare una giornata particolare piena di incognite e di tante cose da fare. Poi toccava a me. La sveglia, ancora più egoista e prepotente, alle ore 7 mi informava che il tempo di stare a letto era scaduto, per cui insieme alla mia cara e adorabile Antonietta, già sveglia da un po’, mi accingevo a far parte di questa squadra pronta ad affrontare la sfida che ci attendeva: la difficile gestione in quel giorno di Ferragosto del nostro bar a Piana Caruso. Neanche il tempo di completare la colazione ed ecco, come un’eco in lontananza, una voce che mi chiamava: era mio padre per avvisarmi che il bar era già pieno di clienti. Era iniziata, per la mia famiglia, la giornata più lunga dell’intero anno, una vera e propria h24. A rendere ancora più difficile quella nostra “maratona” erano alcuni “clienti” senza vergogna e un minimo di pudore, perché facevano delle richieste assurde, come quella di conservare nei nostri frigoriferi, già straboccanti di ogni bontà, qualche loro prodotto (bibite o torte di gelato). Mio padre naturalmente, con molto garbo e altrettanta educazione, rispediva senza riserve e in busta chiusa (a bassa voce) queste assurde richieste ai relativi mittenti. Alle ore 9 del mattino, il luccicante motore della macchina della gestione del bar ormai girava a pieno regime per affrontare la grande e dura competizione, quasi simile a quella mitica di Le Mans, in Francia. I ruoli che il mio genitore assegnava a tutti noi erano gli stessi delle serate danzanti con una sola eccezione: io ero addetto alla cassa con il compito di consegnare ai clienti, a seguito del pagamento, il bigliettino (scontrino non fiscale) indispensabile per poi prendere la “consumazione”. Sembrava un compito facile, ma in realtà non lo era, in quanto dovevo prestare molta attenzione per evitare di commettere errori, perché il flusso di denaro, anche se si trattava di banconote di piccolo taglio, per nostra fortuna era continuo come il gocciolamento incessante di un rubinetto difettoso. Intanto, fino alle prime ore del pomeriggio, il numero dei nostri clienti era simile alle copiose e tranquille acque di un fiume, che faceva, però, prevedere da un momento all’altro una possibile piena. E così sarà. Infatti, mezz’ora prima che iniziasse nello spazio antistante il bar la Santa Messa, dedicata alla Madonna Assunta, una marea di persone, certamente più di duecento, affollavano la nostra attività commerciale. Era per la mia famiglia una pacifica e gioiosa invasione. Si trattava di un vero e grande caos, alimentato per giunta da coloro che, in attesa di seguire la funzione sacra, facevano insistenti richieste di ogni genere: la più gettonata era quella di avere altre sedie per non stare in piedi. Per tale motivo, a mia madre non restava che prendere dalla nostra cucina le ultime sedie rimaste per accontentare le persone più bisognose, in particolare quelle con molte primavere sulle spalle. Terminata la Messa, una parte di quella moltitudine di persone si riversava all’interno del bar per dare una giusta risposta a quel caldo torrido con un fresco ristoro. E qui, la situazione diventava ancora più difficile, a momenti ingestibile soprattutto per colpa di coloro che, non passando prima dalla cassa per ritirare quello pseudo scontrino (non fiscale), facevano perdere del tempo, intralciando il normale svolgimento del nostro lavoro. Nonostante ciò, pur con un leggero stridio del motore, la nostra macchina organizzatrice senza soste continuava a percorrere la tortuosa strada di montagna per giungere finalmente al traguardo, sotto lo striscione che indicava la fine di una giornata di superlavoro. Quella gran baraonda, che metteva in difficoltà me e i miei familiari, ma in compenso regalava dolci e radiosi sorrisi alle nostre casse di famiglia, durava fino alle ore undici di sera. Dopo, seguivano momenti di relativa tranquillità con il solo servizio ai tavolini, caratterizzato soprattutto dal gioco del cosiddetto “patruni e sutta” (padrone e sotto) con il consumo di un fiume di birre e di una montagna di quelle ottime specialità di mia madre, meritevoli di essere trasmesse alle nuove generazioni affinché ne possano apprezzare i sapori di un tempo: i fresi cunzèti (“fresine” condite).Era da poco terminata l’ultima ora di quella singolare giornata quando finalmente scendeva il tanto atteso e desiderato silenzio della notte e con esso anche il nostro sincero ringraziamento al Signore per averci assistito nel portare a termine una giornata così intensa e difficile. Ormai l’orologio segnava le due di notte, anche l’aria stanca si era assopita, quando mio padre, dopo quasi 24 ore di lavoro, nel mentre si avviava per un giusto riposo notturno sentiva un rumore alle serrande appena abbassate. Non era il vento. Era il solito ritardatario - per non usare un altro termine - che con insistenza bussava alle porte per un pacchetto di sigarette o per l’ultimo whisky della giornata. Roba da matti! Da non credere! Così, quella giornata di metà agosto, come una donna stressata e sconvolta, ma dal fascino irresistibile e dalla fama di conquistatrice, mi lasciava in eredità per alcuni anni la sua immagine, quella caratterizzata dalla scia bianca degli incubi …Kafkiani.”