di Ferruccio Masci dalla pagina facebook "Filosofia e società"

“Niente dissipa i pregiudizi meglio del conoscere popolazioni dotate di usanze, leggi e opinioni diverse dalle nostre; una diversità che con poca fatica ci insegna a respingere tutto ciò in cui gli uomini si differenziano e a considerare come voce della natura tutto ciò in cui si assomigliano: le leggi primarie della natura sono infatti uguali in tutti i popoli” afferma il giornalista polacco Ryszard Kapuscinski.

Credo che una simile notazione che può apparire addirittura pleonastica rivesta, soprattutto alla luce delle più recenti recrudescenze politiche, militari, terroristiche, una rilevanza centrale. Gli elementi qualificanti del pensiero di Kapuscinski credo si possano individuare nel viaggio, inteso come opportunità di incontro con il diverso, il non convenzionale o, semplicemente, l’altro da sé, e nel gravame che il pregiudizio esercita sulla reale osservazione e comprensione di ciò che si offre al nostro incedere. Viaggiare non significa spostarsi nello spazio, attività oggi molto più alla portata anche dei meno abbienti, un tempo i voli erano esclusiva di una certa élite, per esempio, anche se va detto che una volta si viaggiava economicamente chiedendo dei passaggi, attrezzati dell’essenziale, mentre oramai nemmeno i giovani si spostano senza un adeguato gruzzolo sulla carta di credito. Ma non mi voglio addentrare in analisi di natura eccessivamente socio-economica, mi sembra più significativo sottolineare quanto spesso il viaggio, mi riferisco a quello di diporto, si risolva in settimane in villaggi turistici o, nota forse ancora più dolente, nell’andare a pranzo da McDonald’s indipendentemente che ci si trovi a Milano, Praga o Tokyo. Ricordo con piacere quante volte sono stato trascinato dalla mia compagna di viaggio, parlo di un’epoca purtroppo lontana, a visitare i mercati locali in Grecia, in Spagna, in Gran Bretagna, in Marocco, in Egitto, insomma, in ogni località visitata, era come socchiudere l’uscio di un altro mondo, cambiavano i colori, i sapori, le modalità di relazione, venivi inghiottito nel quotidiano di una diversità che ti si offriva senza filtri, così com’era vissuta dai suoi protagonisti. Tragicamente la globalizzazione, che ha trasformato il pianeta in un immenso mercato omogeneizzato, ha cancellato quel mondo. Lo so, la mia formazione storica e filosofica mi ha portato a comprendere le tappe di un cosiddetto progresso proteso a sostituire alla particolarità dell’essere umano e della sua vicenda individuale la trasformazione di tutti in produttori – consumatori, operazione che, surrettiziamente, ha indotto intere generazioni a ricercare e frequentare i centri commerciali sempre più estesi e variegati ma solo nella quantità di un’offerta che ha reciso ogni collegamento con la storia locale per presentare il medesimo volto di un mercato apparentemente poliedrico eppure sempre uguale a un unico principio. Troppo spesso ciò che era lo sguardo profondo di una civiltà sopravvive solo a stento e mercificato nella proposta turistica della visita “al villaggio nel quale sarà possibile incontrare le usanze delle popolazioni locali”; sono antico, non posso che immalinconirmi. “Molta gente crede di pensare mentre sta solo riordinando i propri pregiudizi” sentenzia caustico il filosofo e psicologo William James; ancor più graffiante quanto afferma Philip Dormer Stanhope, politico inglese del XVIII secolo più noto forse come IV conte di Chesterfield: “I nostri pregiudizi sono le nostre amanti; la ragione è al meglio nostra moglie, molto spesso necessaria, ma raramente considerata”. A parte le notazioni relative all’intrinseca misoginia della cultura dell’epoca, è sottile e attuale la notazione poiché evidenzia quanto intrighi il pregiudizio e quanto poco uno sguardo più aperto e libero. La tragedia peggiore, a mio modo di vedere, si manifesta nel momento in cui il pregiudizio è condiviso dalle persone e dall’ambiente circostante, spesso per scelta più o meno consapevole, altre volte senza che il soggetto ne abbia coscienza così miope a causa della prospettiva omogenea e omologante nella quale si è trovato ed è cresciuto. Insomma, se la tua patologia è collettiva si chiama normalità e, con una capriola logica, si trasforma in sanità. La conseguenza più assurda e perniciosa consiste nel considerare malato chi è afflitto da una patologia diversa o, addirittura, semplicemente non palesemente infetto. C’è poi il rischio, che si diffonde tra i più fragili, di riconoscere l’altro come un nemico, anzi, addirittura di aver bisogno di individuare un antagonista per avere finalmente un barlume di consapevolezza di sé. Ecco che anche il più confuso acquisisce certezze, radicate idee che, tornando a James, spesso sono solo pregiudizi. Come afferma Carl Gustav Jung, “L’uomo ha bisogno di idee e convinzioni generali che diano significato alla sua vita e che gli permettano di individuare il suo posto nell’universo”, potremmo allora affermare che ogni persona vale in base alla qualità dei propri pregiudizi e, soprattutto, alla capacità di comprendere quanto questi possano offuscarne lo sguardo. Mi sembra utile uno stralcio da “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery: “Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancor più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire”. Quale potrebbe essere una soluzione per superare l’impasse del rimanere ancorato al grave prodotto della nostra urgenza di certezze, di stabilità, di dogmi di gravitazione esistenziale? Potremmo regalarci la certezza e l’orgoglio di essere animali pensanti, capaci di mettersi sempre in discussione, di avere una mente aperta che ha il coraggio di accogliere una prospettiva differente da quella alla quale è abituata, quando ha l’occasione di incontrarla e l’ardire di coglierla. Una simile certezza non si alimenta alla immobilità del non cambiare opinione o, almeno, essere disponibile a farlo, atteggiamento che non va confuso con la coerenza o con la saldezza dei principi, al contrario, va riconosciuto come sclerosi del pensiero, come arrogante cocciutaggine, come paura rinnegata e sempre più profondamente abitante del profondo. Credo che chi non sa amare e rispettare anche le idee degli altri è perché non ha la profondità delle proprie. Forse la ricetta per superare questa situazione autoreferenziale consiste nel trasformare lo specchio nel quale ci riflettiamo compiaciuti in una finestra sugli altri. Credo sia un momento emozionante quando ci si accorge di avere finalmente conseguito la determinazione per mettere in discussione i propri pregiudizi, anche se li si è sempre chiamati in altro modo, ma ora, ora che finalmente li si riconosce come tali, li si può accettare, alla luce dei suggerimenti gadameriani, solo come componenti della nostra storia personale e/o condivisa, trasformandoli da censure all’intelletto in strumenti per meglio saperci. È quello l’attimo nietzscheano in cui si è pronti per cogliere una certezza nuova, quella di essere capaci a riprendere il viaggio con la gioia trepidante d’attesa che ci consentirà allo stupore, alla meraviglia, felici di scoprire come, affacciati alla finestra, nella quale abbiamo saputo trasformare lo stanco specchio nel quale non ci potevamo più riconoscere, potremo godere del meraviglioso e terribile spettacolo che ci può offrire la vita.

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