di Enzo Bianchi fondatore di Bose

Lc 14,25-33: "Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: ²⁶«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 

²⁷Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. ²⁸Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? ²⁹Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, ³⁰dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro». ³¹Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? ³²Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. ³³Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo".

Dopo il pranzo a casa di uno dei capi dei farisei (cf. Lc 14,1-24), Gesù riprende il suo cammino verso Gerusalemme, seguito da una folla numerosa. La sua predicazione ha successo, gli ascoltatori pronti ad accompagnarlo lungo la strada sono molti, ma Gesù, che vuole accanto a sé discepoli, non militanti, si volta indietro per guardare quella folla in faccia e rivolgerle alcune parole capaci di fare chiarezza e di non permettere illusioni o addirittura menzogne. Parole dure, che ci urtano e ci dispiacciono perché ci chiedono di combattere contro noi stessi, contro i nostri sentimenti naturali, e ci invitano a un distacco radicale da noi stessi. Infatti Gesù avverte: “Se uno viene a me, cioè vuole stare con me, e non odia suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. Gesù mette in contrasto lo stare con lui e l’amore famigliare, filiale, coniugale e fraterno, nonché l’amore per la propria vita. Perché tanta radicalità? Semplicemente perché egli conosce il cuore umano, conosce il potere dei legami di sangue, conosce la possibilità che la famiglia sia una gabbia, una prigione. L’intenzione delle parole di Gesù consiste nella liberazione, che egli vuole portare a ogni uomo e a ogni donna, da tutte le presenze idolatriche, da tutti i legami che possono impedire libertà e vita piena, tra i quali è possibile annoverare anche legami e affetti di sangue e di famiglia. Quanto alla paradossale espressione “Se uno non odia…”, essa ha certamente un retroterra semitico, ma va intesa bene. Infatti viene tradotta correttamente: “Se uno non mi ama più di quanto ami suo padre, sua madre…”. Negli affetti è questione di ordine. Amare il padre e la madre è un comandamento della Torah (cf. Es 20,12; Dt 5,16), e Gesù lo conferma (cf. Mc 7,9-13; Mt 15,3-6), ma può succedere che questo amore impedisca l’adesione al Signore, la pratica della sua volontà, la sequela materiale di Gesù. In tal caso i legami con la famiglia che trattengono, che contraddicono l’adesione alla buona notizia, vanno addirittura odiati! Per il Regno Gesù ha invitato ad abbandonare i genitori, i fratelli, le sorelle, i figli, la casa e i campi (cf. Lc 18,29). La storia delle vocazioni cristiane conosce bene il verificarsi di conflitti e di sofferenze nelle famiglie, che a volte si ribellano alla vocazione del figlio o della figlia, e conosce bene anche le vocazioni abortite perché il legame con la famiglia è rimasto, anche nella sequela, più forte del legame con il Signore che la vocazione richiede. Certo, oggi la mondanità entrata anche nella vita ecclesiale, religiosa e monastica banalizza le relazioni tra chiamato e famiglia, così che non si pone più un aut aut che indichi una rinuncia, una separazione necessaria per seguire con cuore unito il Signore. L’esito è poi quello di chiamati che hanno una vita astenica, che sono “tirati qua e là” (cf. Lc 10,40), mai veramente decisi a compiere un cammino imboccato con tutto il cuore: chiamati che, dopo un po’ di cammino dietro a Gesù, sentono la prepotente nostalgia della famiglia e dunque abbandonano la strada intrapresa. Misere vocazioni! In verità non possiamo amare tutti nello stesso tempo e allo stesso modo, ma solo dando ai nostri amori un ordine chiaro sappiamo dov’è il nostro tesoro e dunque il nostro cuore (cf. Lc 12,34). D’altronde, anche le dieci parole (cf. Es 20,1-17; Dt 5,6-22) richiedono come prioritario l’amore per Dio, e quando Gesù ricorda al giovane chiamato la Torah, è significativo che retroceda dal quarto all’ultimo posto il comandamento “Onora il padre e la madre” (cf. Lc 18,20). Anche i leviti dovevano abbandonare la famiglia per essere assidui al Signore, e la comunità di Qumran richiedeva ai suoi membri un celibato che prevedeva anche la separazione dalla famiglia per essere vigilanti, con un cuore unificato, in attesa del giorno del Signore (cf. 4QTestimonia 14-20; cf. Dt 33,8-11). Sì, Gesù chiede un atto, che lui stesso ha compiuto nei confronti della sua famiglia (cf. Lc 8,19-21), chiede una rottura che permetta un amore diverso, esteso, universale, un amore nel quale Dio ha il primato e la famiglia ha il suo posto, ma senza il potere di legare e di ostacolare il compimento della dinamica del Regno. Nello stesso tempo, amo ricordare che il nostro Dio, e dunque Cristo, non è totalitario: l’amore che lui richiede non esclude altri amori, come quello coniugale o quello dell’amicizia, ma questi vanno vissuti sapendo che l’amore per Cristo è primario, egemonico, e gli altri amori non possono porre ostacoli, dilazioni e tanto meno contraddizioni a quello per il Signore. Questo regime degli affetti è duro, costa fatica, ma è il “portare la propria croce”, cioè il portare lo strumento di esecuzione del proprio io philautico, egoista. Ognuno ha una propria croce da portare, nessuno ne è esente, ma non si devono fare paragoni. Gesù, infatti, sa che quanti lo seguono fedelmente si troveranno coinvolti anche nella sua passione e morte, quando egli porterà la croce. Si tratterà di imparare da Gesù, quando egli parla, agisce, ma anche quando sarà condannato, torturato e ucciso nell’ignominia della croce. Essere discepoli di Gesù non è l’esperienza di un momento (cf. Mc 4,12-13; Mt 13,20-21), non è un provare per verificare, ma è la decisione di rispondere a una chiamata, è un “amen” che va detto con ponderazione, con discernimento, senza obbedire alle emozioni del momento. Per questo Gesù annuncia due parabole che suonano come un avvertimento, una messa in guardia: egli non fa propaganda per le vocazioni, ma piuttosto dissuade… Avremmo molto da imparare da questo atteggiamento di Gesù, soprattutto quando la scarsità di vocazioni ci angoscia e ci fa paura: cattiva consigliera quest’ultima, che spinge ad accogliere tutti con molta superficialità e a non riconoscere e comunicare le difficoltà oggettive della sequela di Gesù. Con la prima parabola Gesù avverte: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa, per vedere se ha i mezzi per portare a termine i lavori?”. Seguire Gesù – e si faccia attenzione a una lettura poco intelligente dei racconti evangelici di vocazione! – richiede non il fuoco di un momento, non l’entusiasmo, non solo “l’innamoramento”, ma anche un tempo di calma, di silenzio, di esame di se stessi. È l’azione del discernimento, difficile ma assolutamente necessaria per percepire la voce del Signore non fuori di noi, non soltanto nelle eventuali parole di un altro, ma nel nostro cuore più profondo, là dove Dio ci parla personalmente. Ascoltando il profondo, la propria intimità, discernendo la parola di Dio dalle altre parole che ci abitano, guardando con realismo a ciò che siamo e alle nostre possibilità, noi possiamo giungere a una scelta; magari facendoci aiutare da chi è più avanti di noi nella vita secondo lo Spirito, ma sempre coscienti che l’amen può solo essere nostro, personalissimo, e un amen per sempre, non a tempo o con scadenza! Similmente la seconda parabola avverte che occorre misurare bene le proprie forze, per vincere quello che è un combattimento spirituale senza tregua, fino all’ultimo. Perché la sequela di Gesù esige la capacità di fare guerra contro il nemico, il diavolo che ci tenta e vorrebbe farci cadere, spingendoci ad abbandonare la sequela stessa. Dunque il chiamato lo sa: ascoltata la parola di invito, deve innanzitutto “stare fermo”, rimanere in solitudine e in silenzio (cf. Lam 3,28) per discernere bene cosa ha ascoltato e cosa il cuore gli dice; poi deve consigliarsi (come dice letteralmente il verbo bouleúomai); infine deve pervenire alla decisione personalissima, fidandosi soltanto della grazia del Signore. Insomma, deve sapere che la vita cristiana è una lotta, una battaglia dura e faticosa contro le tentazioni del demonio: una lotta che dovrà essere perseveranza, coraggio e invocazione della fortezza, questa virtù che è dono dello Spirito santo. Al chiamato non spetta solo iniziare, ma anche portare a compimento, con l’aiuto della grazia, che non è mai negata a chi la invoca e la cerca con cuore sincero. Gesù aggiunge poi una parola non presente nel brano liturgico, ma collegata con quanto precede. Egli dice che accade per una storia di vocazione quello che accade per il sale: “Il sale è buono, ma se perde la capacità di salare, a cosa potrà servire? Lo si butta via!” (cf. Lc 14,34-35). Allo stesso modo una vocazione può essere buona, ma nella vita può essere contraddetta, abbandonata, e allora quella resta una vita sprecata. Diceva il mio padre spirituale: “Quando qualcuno pensa di incrementare il numero di vocazioni nella chiesa, e impone la vocazione agli altri, non crea dei santi ma solo delle persone miserabili!”.

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