di Rossella Librandi Tavernise
Il Natale della mia infanzia, nel dopoguerra, era semplice e suggestivo e ancora arcaico. Si preannunciava con un buon profumo di dolci fritti che si spandeva per le vie del paese e impregnava l’aria grigia e umida dell’inverno appena iniziato.
Fare i dolci di Natale era un rito: si preparava tutto con cura e i dolci si confezionavano con grande abilità secondo un'antica liturgia; alla loro preparazione collaborava pure qualche parente e qualche comare ('ndrikul) del vicinato. Si riempivano grandi cesti di krustuli, kuleç, scaliglie, pasta kumbeta e se ne mandavano anche agli amici che, colpiti, purtroppo, da un lutto recente, non ne facevano. (Fare i dolci era una manifestazione di gioia e allegria simboleggiate dalla farina che imbiancava la casa e dal crepitio dell’olio nella padella). Per iniziare il lavoro era necessario che fosse presente il capofamiglia al quale spettava il compito di saggiare il punto giusto di cottura dell'olio e immergervi per primo un dolcetto. Durante la frittura era proibito bere acqua perché si credeva che l’acqua prosciugasse l’olio (alimento assai prezioso), era ammesso, però, bere un sorso di vino e, se proprio si aveva sete, si doveva andare a bere in un’altra stanza. I bambini venivano tenuti lontani dalla cucina per motivi di sicurezza e perché non intralciassero il lavoro con la loro vivacità. Se entrava qualcuno durante la lavorazione doveva dire una formula di augurio: «Buroft!» (significa abbondanza); si rispondeva: «Mir se na erdhe!» (sei il benvenuto). Molto suggestiva era anche la novena “i shin Bombinit„. All’imbrunire, la Chiesa dedicata alla Madonna del Rosario era illuminata dalla lunga fila di lumini posti sull’altare di rito latino (la Chiesa di rito greco dedicata alla Madonna di Costantinopoli, patrona del paese, era inagibile per via della ricostruzione). Tantissimi bicchieri di vetro trasparente venivano riempiti per metà di vino e per metà di olio: l’olio, essendo più leggero, veniva a galla; su questo, te tripti (sul galleggiante), si poggiava miçarieli, uno stoppino vegetale (il fiorellino campanulato e seccato dell'erba ballota) che, acceso, durava parecchie ore; il vino, di vari colori, colpito dalla luce, spandeva intorno un alone sfumato e variamente colorato. Mia nonna Marietta coltivava, nell'orto dietro casa, un cespuglio di erba ballota e, dei suoi fiori campanulati, riforniva la Chiesa e se ne serviva per tenere sempre acceso il lumino posto davanti alle foto dei cari defunti. Durante la novena si cantava “Kalimera e Natallëvet„ di Giulio Variboba, prete e poeta di San Giorgio Albanese (ripresa e divulgata, con tutte le altre poesie inedite, da Vincenzo Librandi nella sua Grammatica albanese, Editore Hoepli Milano 1896). Il poeta immagina (e lo immaginavo anche io durante il canto) che una lunga fila di gente del paese e della campagna porti alla Sacra Famiglia nella grotta, tutto ciò di cui necessita: ricotte, formaggi, galli, colombi, panni, dolci, uova, frutta; chi non possiede nulla porta il suo amore e una canzone. La Madonna esorta il figlio a svegliarsi per benedire tutti quei devoti e gli dice: «Sghjogu biir, ez i bekò, Sghjogu se bære ninò!..» Alcuni giorni prima della festa, Giuseppe il sagrestano portava in ogni casa del paese il Bambinello di porcellana adagiato sulla paglia dentro una cesta di vimini. La gradita visita del paffuto bambinello suscitava tenerezza e predisponeva l’animo alla serenità e alla pace: sentimenti giusti per aspettare il Santo Natale; il Bambinello veniva baciato da tutti i presenti e, in cambio di questo dono spirituale, si faceva un’offerta in natura (olio, uova, ecc., o soldi). Allora non si usava fare l’albero e il presepe nelle case, se non in poche e in queste, tuttavia, non si addobbava sontuosamente il pino o l’abete ma un più modesto alberello della nostra macchia mediterranea, come il corbezzolo, già naturalmente ornato di spugnose palline giallo-arancio (i frutti). Si arricchiva, inoltre, di profumati mandarini, di piccole mele, di caramelle e torroncini; la neve si faceva con la bambagia sfilacciata e con la farina bianca cosparsa sulle foglie. A scuola la maestra o il maestro ci faceva scrivere la letterina di Natale indirizzata a Gesù Bambino: Gli chiedevamo serenità e salute per i genitori e per tutte le persone care; perdono per aver fatto qualche marachella e promettevamo di essere più buoni e studiosi, in futuro; prima di cena la nascondevamo sotto il piatto del babbo il quale, trovandola, dopo averla letta, mostrava grande stupore e soddisfazione per il contenuto e, in cambio, ci faceva la strenna. La cena della vigilia era tutta di magro e sobria: si cucinavano in vari modi tanti tipi di verdure (broccoli, rape, cavolfiori), pesci pescati nel nostro mare (te deiti jon) dai pescatori di Schiavonea di Corigliano e il baccalà; si completava con frutta secca, specialmente fichi farciti di noci e mandorle (crocette) e frutti dell’estate conservati in cantina e in soffitta: uva, meloni, cocomeri dalla polpa bianca quasi giallina, “dardha dimri” (pere), mele, castagne e agrumi. Frattanto, nel focolare ardeva un grosso ceppo e le bucce delle arance e dei mandarini buttate nel fuoco, bruciando, inondavano la casa di un buon profumo. Terminata la cena non si sparecchiava la tavola (trisa), si toglievano solo i piatti sporchi e si lasciavano le vivande non consumate perché durante la notte, si diceva, sarebbe passato Gesù Bambino e bisognava lasciargli qualcosa da mangiare. A un certo punto della serata, si sentiva bussare alla porta: aprendo, si trovava un poverello il quale, camuffatosi per non farsi riconoscere, chiedeva l'elemosina in nome di Gesù Bambino. Talvolta, per voto, anche persone benestanti, camuffate anche loro, giravano per le case a chiedere l'elemosina. Noi bambini facevamo un grande sforzo per restare svegli e poter andare in Chiesa a mezzanotte, bene imbacuccati, ma durante la Messa, stanchi e insonnoliti, ci addormentavamo in braccio ai nostri genitori e ai nonni. Il pranzo del giorno di Natale era legato alle tradizioni di ogni famiglia e tutti erano disposti a fare qualche sacrificio perché riuscisse ricco e si ricordasse il Natale come un giorno veramente speciale. Chi dei miei contemporanei immaginò, allora, questi tempi odierni di corse frenetiche al regalo originale, ai vestiti eleganti, alle pietanze raffinate, ai dolci fantasiosi e alle vacanze in posti lontani?