MONTANELLI, sarcasticamente gli scriveva: “Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e si debbono fare; l’umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre”. 

Ben più di rado si cita l’irridente ritratto che ne fece anni dopo, ricordandolo come “certamente un uomo onesto, coraggioso e coerente con le proprie idee (anche perché ne aveva pochissime)” e la lapidaria chiosa “non c’è da vergognarsi di avere avuto un Presidente come Pertini. Ma non vedo cosa ci sia da ricordarne”. Nell’81 si precipitò a Vermicino a partecipare del dramma in diretta TV di Alfredino Rampi. Per dirla di nuovo con Montanelli “Non perdeva occasione di dare spettacolo seguendo in lacrime tutti i funerali, baciando torme di bambini, e insomma toccando sempre quel tasto del patetico a cui noi italiani siamo particolarmente sensibili”. Di Pertini parlavano malissimo molti politici, CRAXI in primis, ma sorprendentemente non è difficile trovare giudizi affilati espressi anche dai suoi amici e alleati. Proverbiale era poi la sua vanità.  ANTONIO GHIRELLI, suo capo ufficio stampa, valoroso giornalista e galantuomo socialista, riferì uno sferzante giudizio di SARAGAT: «Sandro è un eroe, soprattutto se c'è la televisione, dove può esibire i suoi abiti firmati, le sue scarpe Gucci mentre predica il socialismo e il pauperismo... Lo stile colorito e l’avventatezza delle esternazioni lo portarono ad un crescente isolamento nel partito. Di lui diceva RICCARDO LOMBARDI, esponente storico del Partito Socialista Italiano: “CUOR DI LEONE, CERVELLO DI GALLINA”. Ma forse proprio grazie a questa sua mediocrità la sua figura crebbe lentamente ma ininterrottamente in prestigio istituzionale. PIETRO NENNI, che a Pertini era legato da profonda amicizia e dalla militanza di una vita, sempre stando a Montanelli, raccontava: “Io non sono un uomo di cultura e alla cultura non attribuisco, per un politico, una decisiva importanza. Ma qualcosa so, qualche libro l’ho letto, anche grazie a Mussolini quando mi mandò al confino a Ponza.  C’era anche Sandro. Lui, l’unica cosa che leggeva era “L’Intrepido” (un giornalino a fumetti). Il resto del tempo lo passava a giocare a briscola o a scopa con  i nostri guardiani. Alle nostre discussioni sul futuro dell’Italia non partecipava quasi mai e, quando lo faceva, era solo per invocare il popolo sulle barricate, per lui la politica era solo quella”.  Il suo ruolo istituzionale sbaragliava tutti e sconfinava nel pop. Era l’italiano di Toto Cutugno… “un partigiano come presidente” e poi assurto a supereroe di un fumettone a vasta tiratura popolare. Ma è stato anche un carrierista della politica distintosi per l’appellativo di “Presidente più amato dagli italiani”, a conferma del detto “l’amore è cieco”, per come la sua vita è soffusa di ombre legate alle sue posizioni ideologiche inneggianti alla figura di Stalin e agli eventi legati al Comunismo jugoslavo. Alla morte di Stalin, nel 1953, da capogruppo socialista alla Camera dei Deputati, espresse un elogio caloroso nei confronti del dittatore sovietico. Definì Stalin “un gigante della storia” e sostenne che la sua memoria “non conoscerà tramonto” rivelando una visione profondamente idealizzata e indottrinata di una figura unanimemente riconosciuta responsabile di atrocità e repressioni su larga scala. Questo elogio non fu da lui mai ritrattato, nemmeno quando lo stesso PCUS rivelò i crimini del regime stalinista. Un altro episodio controverso legato a Pertini riguarda la grazia concessa a MARIO TOFFANIN, il partigiano comunista assassino, responsabile, del massacro di PORZUS, in Friuli, nel 1945, dove vennero uccisi 17 partigiani della Brigata Osoppo, tra cui Guidalberto, fratello dello scrittore Pier Paolo Pasolini e Francesco De Gregori, zio dell’omonimo cantautore. Toffanin, noto come “Giacca”, non si pentì mai dei suoi crimini e la concessione della grazia, da parte di tanto Presidente, suscitò sdegno specialmente tra gli esuli istriani e giuliani che, per colmo, dovettero ingoiare l’altro rospo, l’assegnazione, da parte dello Stato italiano, a questo gaglioffo, della pensione in qualità di “combattente partigiano”, nonostante il suo ruolo nelle violenze di quegli anni. Pertini fu uno spietato capo partigiano. Il suo nome ricorre in molte vicende. Per esempio, quella della coppia di attori Valenti-Ferida. Luisa Ferida aveva 31 anni ed era incinta di un bambino quando fu uccisa dai partigiani all'Ippodromo di San Siro a Milano assieme a Osvaldo Valenti, il 30 aprile 1945, entrambi accusati di collaborazionismo, per aver frequentato la famigerata Villa Triste, a Milano, sede della banda Koch. L'accusa si dimostrò infondata al vaglio delle testimonianze e delle prove; lo stesso Vero Marozin, capo della Brigata partigiana che eseguì la “condanna a morte”, dichiarò, nel corso del procedimento penale a suo carico: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente». I due attori, infatti, furono uccisi ma non avevano responsabilità penali o politiche tali da giustificarne la fucilazione per collaborazionismo.  Nelle dichiarazioni rese da Marozin in sede processuale Pertini fu indicato come colui che aveva dato l'ordine di ucciderli: «Quel giorno - 30 aprile 1945 - Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: "Fucilali, e non perdere tempo!"». Pertini si era rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva elaborato durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa. La casa milanese di Valenti e della Ferida venne svaligiata pochi giorni dopo la loro uccisione. Fu rubato un autentico tesoro, compresi cani di razza, di cui si perse ogni traccia. Ma Pertini era un “buono d’animo”, tanto buono che non mancò di partecipare ai funerali di tutti tranne, beninteso, di quelli morti per suo ordine, meritandosi il soprannome di “becchino d’Italia”. Come da copione, non mancò di partecipare, con commozione, ai funerali del presidente jugoslavo Tito, responsabile delle foibe e delle uccisioni e deportazioni degli italiani nelle zone di confine orientale durante e dopo la seconda guerra mondiale. Questa partecipazione fu vissuta come un insulto dalle comunità di esuli che avevano subito le violenze del regime titino. Era ben chiaro che con Tito condivideva l’indole sanguinaria che li indusse a scelte estremiste legate alla fedeltà, di entrambi, alle scelleratezze che si conciliavano con i crimini del comunismo internazionale. Per comprendere l’uomo e la rabbiosa atmosfera di bile, di rabbia e di invidia che respirava, leggiamo cosa scriveva, in un raro momento di spassionata confessione, dell’innegabile successo di cui in quel momento godeva Mussolini artefice innegabile della cosiddetta “Era del Consenso”:

 

 Ernesto Scura 

 

 

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