Quando, per la prima volta, arrivai a Trieste, era già buio. Fuori della stazione chiesi come raggiungere via Lazzaretto Vecchio dove già c’erano, ad attendermi, miei amici. M’indicarono il tram.

Al bigliettaio rivolsi la preghiera di avvertirmi quando saremmo arrivati a “Lazzaretto Vecchio”. Dopo una percorrenza di non più di cinque minuti, va via la corrente e la città piomba nel buio. Ovviamente il tram si ferma. Il bigliettaio mi suggerisce, data l’incertezza sui tempi di attesa, di continuare a piedi poiché la mia destinazione non era, poi, così lontana. Proseguii seguendo le rotaie del tram. Ad un certo punto arriva la corrente e mi trovo, in uno sfolgorio di luci, in una enorme Piazza (era Piazza Unità). Ci volle un bel pò perché la mia vista si adattasse allo splendore di quella Piazza, contornata da palazzi famosi. Il più vicino era il palazzo del Lloyd Triestino di Navigazione. Col fiato sospeso per la fantasmagorica scena, rimasi incantato per una statua in una nicchia della facciata. Era una bellissima donna, nuda (ci volle un po’ per individuarla nella dea Venere, almeno per la conchiglia su cui poggiava). Stetti un attimo ad ammirare tutto quel ben di Dio che, poi, negli anni a venire, convenni che fosse un segno premonitore sulla benevola accoglienza che le fanciulle di questa generosa città mi stavano accordando. Non ci volle molto ad arrivare a Via Lazzaretto Vecchio. La famiglia che ci ospitava era quella di un colonnello della Riserva (Col. Ris, sulla targa della porta, che io, anche per l’avanzata età del soggetto, all’inizio, definii con un’assurdità: “Colonnello del Risorgimento”). Un omino che a primissima mattina, con una consunta mantellina grigioverde ed il cappello da alpino, aveva il compito di accendere le stufe a legna in ogni stanza. L’indomani mattina, mentre ero ancora in dormiveglia, entra, molto delicatamente e, con qualche lieve fruscio, si piazza davanti alla stufa in terracotta, poi, con piglio decisamente marziale, si mette, con un ginocchio a terra (tipo prima fila del plotone d’esecuzione) ad armeggiare allo sportello della stufa. Provvede a caricarla di legna mentre, un gradevole odore di grappa si spande nella stanza. Era il “cicchetto”, l’infallibile innesco di accensione. Ultimata l’operazione, sempre con scatti militareschi, si alza, gira su sé stesso, e lascia la stanza. Verso le otto entra la padrona di casa con il caffellatte che pone sul comodino. Un caffellatte, così buono, non l’ho mai più gustato. Era forse più caffè che latte, e la tazza era di quelle grandi. Non ci volle molto ad acclimatarmi, e non lo dico in senso meteorologico. Amai tanto quella città di cui adottai subito le usanze, l’umore allegro e scanzonato, la cordialità e la liberalità morale priva di tab e ipocrisie. Dopo qualche anno ci fu la volta che, a pranzo, i miei colleghi cominciarono, benevolmente a prendermi in giro. Alla televisione ci fu un servizio su Trieste. Ad un certo punto fu inquadrata piazza Unità, e lo Spyker: “Il vero triestino, specie se triestino di estrazione, non rinuncia, almeno una volta al giorno, a fare i suoi quattro passi, nel “salotto buono” della città, la famosa Piazza Unità”,  e intanto la telecamera inquadra questi triestini “veraci”. Inconfondibilmente riconoscibili io, il greco Dionisio ed il greco Athanasios, che più triestini ... ”non si può”. Intanto, la trattoria dove mangiavamo, stava diventando un arengo politico, per vie delle diversità politiche che, già allora, cominciavano ad avvelenare le acque, e i due fronti, in perenne litigiosità, che si contendevano il grado di detentori della “Verità” erano quello della sinistra che si abbeverava al  Settimanale L’Espresso, e quello della destra il cui “Vangelo” era “il Borghese” la rivista fondata da Leo Longanesi. La cosa che avrebbe dovuto suscitare qualche sospetto era l’assenza, nei dibattiti, di rappresentanti cattolici del “centro”. Loro non figuravano nelle nostre discussioni perché erano troppo impegnati a godersi il potere ed i vantaggi che ne conseguivano, e poi, sotto sotto, avevano delegato la sinistra “radical chic” a parlare anche per loro, visto il comune afflato. La quale sinistra, peraltro, era ben contenta di quella delega che le dava diritto ai vantaggi indiretti derivanti da quel malcelato “consociativismo” che le assegnava, nella gestione del  sottopotere, la fetta più redditizia, anche se a lunga scadenza (cinema, teatro, televisione, magistratura, cinematografia, premi artistici e letterari e, dulcis in fundo, il predominio nelle Università della casta accademica, per il che bastava,come oggi, dichiarare di essere un intellettuale (con, incorporato, l’optional di “sinistra”) e la vita diventava tutta una discesa e verdi prati. Un bel giorno, all’ora di pranzo, i miei amici mi accolsero con un’ovazione. A nome di tutti parlò Sandro Pertusati: Ernesto, abbiamo deciso all’unanimità, tu ti devi presentare alle imminenti elezioni universitarie, per non darla vinta alla scontata alleanza tra democristiani-socialcomunisti che partono già in vantaggio per il venir meno della lista di destra estrema e di quella moderata, per errori formali nelle presentazioni della documentazione. Sarebbe il primo caso, in Italia, di apertura a sinistra, dove, per sinistra, s’intende la forte componente comunista. Ma il grave non era solo questo. Il risultato delle elezioni universitarie, anche se limitate alla sola Trieste, città di destra storicamente conclamata, avrebbe confermato l’ineluttabilità dell’entrata dei comunisti nella gestione di un potere, limitato, ma molto indicativo e di gran prestigio: la cultura universitaria. Non mi diedero possibilità di replicare. Avevano già contattato la lista che mi avrebbe ospitato: l’AGI (Associazione Goliardica Italiana, di ispirazione liberale). Fu un successo travolgente, il nostro gruppo, quello a cui facevo riferimento, Greci e italiani non residenti, conseguì un successo che lasciò tutti a bocca aperta. I vincitori, con una maggioranza assoluta, fummo noi, relegando all’opposizione socialisti e comunisti rappresentati dall’UGI, i democristiani rappresentati dall’Intesa, e i repubblicani, quattro gatti, tutti che già si leccavano i baffi per partecipare alla spartizione del potere che, in fondo, era un bel malloppo. Cos’era? -Assegnazione del posto gratuito alla casa dello studente, senza alcun motivo di merito (solo gradimento “politico”);  -assegnazione di buoni mensa gratuiti (idem come sopra); -assegnazione gratuita dei buoni libro (idem come sopra) -Tessera di accesso gratis al CUC (Centro Universitario Cinematografico) dove ogni Sabato si proiettavano le solite “cagate pazzesche” di Fantozziana memoria, spacciate per film d’arte. In realtà, solo di propaganda: -La Corazzata Potemkin, con quella traballante carrozzella che riesce a scendere quella spettacolare gradinata senza subire danni. E poi i vermi, veri protagonisti del film, che facevano rivoltante capolino dalla carne destinata ai marinai. - Ivan il Terribile e tutta la trilogia completa di Eisenstein che, se ti permettevi di contestare come “cagate pazzesche” subivi una violenta aggressione verbale e, addirittura, fisica. E se qualche volta si trattava di film di livello culturale adatto a quello di giovani universitari, come, per esempio “Il Rosso e il Nero”, tratto dal romanzo di Stendhal, riuscivano, con dosati colpi discenda, serviti da una claque ben organizzata,  ad esplodere in fragorosi applausi, in momenti di cruciale importanza, e coinvolgere gli spettatori, come, per esempio, là dove il protagonista, il giovane Julien Sorel, un ambizioso e spregiudicato, osservando in una cerimonia la potenza e l’importanza dei personaggi più in vista, ”il rosso”, i gallonati rappresentanti della vita militare con tutti i suoi vantaggi, e il  nero, i prelati, con il loro potere sulle anime e ...sulle cose, è dubbioso su quale delle due carriere scegliere. Quale boccone più prelibato, per quei comunisti d’accatto, per aizzare l’odio contro le carriere ecclesiastiche e contro le carriere militari, ma solo quelle occidentali, beninteso, mentre quelle sovietiche erano tutt’altra ...cosa e quei generali ...tutti stinchi di santo. Pertanto bisognava procedere al disarmo “unilaterale” del solo “occidente guerrafondaio”. E poi i prelati, la longa manus del vaticano che assicurava quel deprecabile vantaggio democristiano. Ma la cosa più triste era che a noi la cosa non faceva male più di tanto. Solo che erano intrattabili. Tutti “trinariciuti” col fumo alle narici. E non fatemi dire delle donne. Tutte vestali di una vagheggiata libertà di cui, in effetti, non abbiamo mai sentita la mancanza. Ma ciò che le rendeva inavvicinabili era il modo di vestire, e di pettinarsi ed il disdegno per qualsiasi tentativo di cosmetica. Sembravano tutte uscite da un Kolkoz sovietico o da una fabbrica di cingolati per trattori agricoli (diciamo pure … carrarmati). Ma tutto proveniva da una frustrazione interna che, per loro, sarebbe stata vinta con il livellamento sociale. Non più ricchi e non più poveri, non più belle e non più brutte. E poverine non si rendevano conto che se sei nata racchia, non c’ė livellamento sociale che tenga. Sei brutta? Lo resterai per tutta la vita. In una città come Trieste, poi, la cosa diventava oltremodo rilevante. Ma, per nostra fortuna, la loro vita sentimentale veniva consumata tutta, ed autarchicamente, nel loro ambito, all’ombra di falce e martello, magari sotto lo sguardo severo del ritratto del compagno...Togliatti. E, ripeto, per fortuna. Nostra, s’intende.

 Ernesto Scura

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