Autunno del 1943. A Corigliano, dopo il transito delle armate alleate, si aveva ormai l'impressione che i rischi del conflitto si fossero del tutto evitati. La guerra era ormai lontana, attestata sulla linea Gustav di Montecassino. Tutto ormai scorreva liscio e l'approvvigionamento del pane (bianchissimo) era costante grazie al fattivo interessamento del comando alleato insediato nel castello.
I partiti politici cominciavano a sgambettare con modalità, se non ottocentesche, da primi del 900. Solo il partito comunista aveva una sua strategia moderna che gli conferiva una furba aureola di leadership. Intanto i vecchi antifascisti qualche sassolino volevano toglierselo, se no, che senso aveva che, dopo il 25 luglio del ‘43,i fascisti se la cavassero a così “buon mercato”, col semplice defilarsi e chiudersi nel mutismo per paura di “vendette” e rappresaglie che, in effetti, non ci furono, perchè Badoglio, almeno questo, riuscì ad evitarlo. Qualcuno però soffiò all'orecchio del comandante alleato di tentativi di riorganizzazione del ”partito fascista”, a Corigliano, con l'intento di creare una quinta colonna operante nel sud, in appoggio alla RSI. Il comandante canadese della “Piazza”, giustamente preoccupato, si fece dare l'elenco di tutti i gerarchi fascisti procedendo all'arresto cautelativo dei più in vista. Erano: -Vincenzo Fino, un vecchio avvocato canuto ed imponente, dalla folta criniera e dai grandi baffi, bianchi. Una figura dal grave e pensoso aspetto giolittiano, col meritorio passato di sindaco, democraticamente eletto in epoca non sospetta, quella prefascista, ininterrottamente, dal 1907 al 1919. Cioè, per ben dodici anni, primo cittadino “a furor di popolo”. In seguito non fu mai Podestà (la cui nomina era prefettizia, non derivata da suffragio), preferendo che questo ruolo lo svolgesse il fratello Gaetano, riservandosi, quello sì, di fiancheggiatore, mettendo a disposizione la sua consolidata esperienza amministrativa. E fu, per vent'anni, riconosciuta autorità fascista, senza incarichi specifici; -Giuseppe Fino, nipote del predetto Vincenzo, giovane laureato in giurisprudenza, che non aveva mai ricoperto incarichi politici. Al massimo era stato iscritto al FUAN, Organo universitario fascista, a cui erano iscritti tutti gli studenti , tra cui, tenetevi forte, persino NILDE IOTTI. -Giosuè Donadio segretario politico del PNF. Insegnante e grande invalido della 1ª guerra mondiale, mutilato di un occhio che aveva sostituito con un occhio di vetro ; -Michele De Gennaro, un ammassatore dei beni di consumo alimentare che doveva provvedere all’applicazione della legge che assegnava tutto il reparto alimentare al controllo di un organo destinato a reprimere severamente il mercato nero; -Salvatore Salimbeni, innocuo, pacioso e benvoluto collocatore, dirigente dell’UFFICIO DI COLLOCAMENTO ; -Il maggiore della Milizia (MVSN), Giuseppe Curti, rispettato ed amato ufficiale, residente a Schiavonea, con moglie di Savona e tantissimi figli tutti biondi, facilmente riconoscibili tra i brunetti di Schiavonea con i quali, spesso, giocavano al pallone, scalzi, come tutti gli altri, sulla sabbia dell’arenile; Personaggi, tutti, ormai, disillusi e mortificati dai disastrosi eventi storici e desiderosi soltanto dell'oblio, per leccarsi le ferite. Figurarsi se avevano voglia di arruolare “brigate nere”, con tanta voglia di pace, poi, che c'era in giro. Stranamente non fu coinvolta l’ultima massima autorità fascista di Corigliano, il Podestà Marcello Cimino. Una svista ? Rinchiusi nel carcere di Corigliano, il giorno seguente furono trasferiti al carcere di Rossano. La camionetta inglese non si recò a prelevarli, come prassi, alla porta del carcere, ma li aspettò alla periferia del centro abitato dove, scortati, arrivarono a piedi, ammanettati, tutti insieme, legati per i polsi alla stessa catena, come i grani di un Rosario. Cosicchè tutti (io avevo dieci anni) avemmo la possibilità di osservare quello spettacolo che, se nell'intenzione di coloro che avevano orchestrato la scena c’era lo scopo di umiliare l'orgoglio di quei personaggi, in effetti ne conseguì, invece, il risultato opposto, per il dignitoso contegno di quegli uomini che suscitò nell’animo della popolazione un irrefrenabile sentimento di sdegno per la maldestra messa in scena. Quando salirono, uno alla volta, sulla camionetta, un fremito colse il pubblico nel vedere quel vecchio canuto che faticava nel montare sul cassone e veniva tirato, per la catena, da chi lo precedeva e spinto, alle terga, da chi lo seguiva, come si usava fare con le bestie destinate al macello, quando le si faceva salire sul camion. Di una cosa, comunque, tutti, indistintamente, erano certi: quelle persone non avevano commesso alcun reato, nè remoto nè recente e nemmeno nelle intenzioni. Se qualcosa gli si poteva imputare era, forse, un eccesso di ostentazione di autorevolezza, ma mai, e poi mai, di autoritarismo. E il “reato” di autorevolezza non è previsto in alcun codice. Dopo pochi giorni di umiliante carcerazione, quel vecchio, come un leone in gabbia, non resse al mortificante strazio e ...morì. Di crepacuore, morì. Quando la salma fu riportata a Corigliano, c’era ad attenderla quasi tutta la popolazione, chiusa in un muto, tragico, concorde silenzio colmo di pietas. Non un urlo di pianto o di possibile rabbiosa imprecazione; Non un singhiozzo che superasse i limiti moderati dei grandi dolori che, proprio se tali, sono muti perchè parlano al cuore. Non un lamento, al di sopra delle righe, delle numerose donne del popolo, rigorosamente in gramaglie. Chi erano? Quelle poverette che dopo il 25 Luglio, a seguito del bando del Commissario Prefettizio che invitava tutti coloro che detenevano beni di consumo alimentare, a metterlo subito disponibile nel mercato alimentare, bypassando gli obblighi di ammasso, se ne giovarono perché, Vincenzo Fino, unico tra tutti i frantoiani di Corigliano, si mise personalmente a vendere il suo olio al bassissimo prezzo d’Ammasso. Mentre gli altri frantoiani, tutti, indistintamente, allettati dalla speculazione, preferirono venderlo a grossisti realizzando, così, i favolosi prezzi del mercato nero e, a guerra finita, furono tutti sottoposti a processo. Ma Vincenzo Fino non c’era più per riscuotere, almeno, un doveroso elogio in riconoscimento della sua onestà. E lo ricordo, seduto alla porta del frantoio, nel rione Sant’Antonio, mentre con la bonomìa che lo contraddistingueva, personalmente “officiava” il meticoloso rito della misurazione di quel prezioso liquido, e scambiare qualche parola scherzosa con ognuna di quelle donnine della lunghissima fila, a lui note, ognuna madre o moglie di soldati al fronte, che, tra l’altro, gli avevano portato, da sempre, un devoto rispetto. Ognuna di loro aveva una frase di ringraziamento:
-“Don Viciè’, vuo’ fiuccar !”
-“Don Viciè’, vuo’ fiurir !”
-“Don Vicie’, u Signur t’benerica !”
Forse è per questo che in quel tardo pomeriggio d’autunno sembrava che anche la natura condividesse e fosse partecipe del dolore collettivo che aveva pervaso quasi tutta Corigliano. Non un fastidioso refolo di vento che scompigliasse le chiome o agitasse i neri scialli delle popolane, coinvolte nel dolore. Non il fastidioso abbaiare d'un cane o il miagolio d'un gatto. Nè i consueti voli d'uccelli fendevano, insolitamente, il cielo. Tutto taceva e tutti tacevano, consapevoli di dover conferire solennità a quella drammatica condivisa cerimonia funebre. Un agghiacciante silenzio di morte aleggiava su quella folla. I parenti più stretti furono assorbiti, come miscelati, dalla straripante folla che, con loro, creò un tutt‘uno unificante ed indistinguibile. Tutti erano, ormai, partecipi al dolore. Non si ripetè lo stucchevole cerimoniale della stretta di mano nè dei commossi abbracci che avrebbero soltanto prolungato la sofferenza dei protagonisti di quel dolore. Ne sarebbe mancato il tempo, ed anche la forza. Per la prima volta, nella mia vita, fui colto da un sentimento mai provato prima ... la commozione.
Ernesto SCURA