A seguito dell’operazione coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e denominata “Stige”, nella quale sono stati coinvolti diversi amministratori pubblici del territorio provinciale di Crotone, il prefetto Cosima Di Stani, ha disposto (ai sensi dell’art.11 comma 2 del Decreto legislativo 235/2012) la sospensione degli amministratori che sono stati raggiunti da provvedimento cautelare.
Si tratta in particolare, di amministratori che rivestivano cariche pubbliche alla Provincia di Crotone e nei Comuni di Strongoli, Casabona, Crucoli e Cirò Marina. Proprio in quest'ultimo Comune, dove risultano coinvolti nell'indagine sia il sindaco che il vicesindaco, il prefetto ha nominato un commissario (il viceprefetto Eugenio Pitaro) che assume i poteri del sindaco e della giunta comunale. Non si possono spiegare a parole le pagine web in cui compaiono gli affreschi, le torri del castello, le statue kitsch. Non si può che lasciare spazio alle foto. Il Castello Flotta, location per matrimoni sfarzosi (ma di nuovo le parole non rendono l’idea) a Mandatoriccio, era diventato protagonista del “Boss delle cerimonie”, programma cult di Real Time. L’arresto di Nicola Flotta per concorso esterno in associazione mafiosa getta una luce sinistra su quella parola, “boss”. E sui rapporti dell’imprenditore con pezzi importanti della cosca Farao-Marincola. Tanto per cominciare: sono tredici i banchetti organizzati a sbafo da sodali e familiari del clan a “Castello Flotta”. Le indagini dei carabinieri del Ros li citano, uno per uno: dal 28 luglio 2002 al 7 dicembre 2012. Li citano en passant anche Giuseppe Farao, boss detenuto, e suo figlio in un colloquio carcerario. Il giovane vorrebbe chiedere denaro a Flotta ma il padre cerca di farlo recedere dall’idea «perché se noi facciamo il conto di tutti i matrimoni… omissis… aspè fatti spiegare…tutti i matrimoni che abbiamo fatto… se avessimo dovuto pagare 50 euro, eh?...” omissis “… se avessimo dovuto pagare…». Sono le parole del pentito Domenico Bumbaca a inguaiare il “boss” (mandatoriccese) dei matrimoni. «Bumbaca – riportano gli investigatori – aveva avuto modo di verificare personalmente che una serie di congiunti di Giuseppe Spagnolo (ritenuto legato al clan Farao-Marincola) avevano festeggiato più ricorrenze presso il Castello Flotta senza pagare nulla». È il cuore delle accuse della Dda all’imprenditore. Un cuore che contempla anche il versamento «in bacinella di una percentuale degli introiti della propria attività imprenditoriale». Anche per questa contestazione c’è un colloquio intercettato dagli uomini del Ros. «Vedi che Nicola quello del castello – dice un presunto affiliato al clan – mi deve dare 2mila euro ora che si sposa “Tavulune”. (...) C’ho già parlato con coso... ogni matrimonio che noi gli portiamo ci dà 2mila euro». È particolare la storia di questa cerimonia. Secondo l’uomo intercettato dai militari, si sarebbe dovuta svolgere altrove, al Grand Hotel Balestrieri. Gli acconti erano addirittura già versati, prima che l’intervento dei sodali della cosca consigliasse agli sposi, «con violenza e minaccia», di festeggiare tra gli affreschi e i marmi del Castello. Era un amico, Nicola Flotta, secondo il boss Farao. Che spiegava al figlio ansioso di riscuotere i denari: «Gli devi dire “vedi che ti ha mandato tanti saluti e basta”, lui ti manda a dire di quello che tu... ti sente della famiglia... e basta». I legami con certe famiglie, però, sono pericolosi. Così come le cerimonie regalate: «Il matrimonio è stato fatto là (al Castello, ndr) e Peppe non ha tolto un euro per il matrimonio, non l’ha pagato, è stato offerto da quello là il matrimonio. Stiamo parlando di un matrimonio che c’erano forse 500 persone». Con i prezzi che girano è un grosso dono. Che, secondo i magistrati, svelerebbe un’altra questione imbarazzante: «Il Castello Flotta è stato costruito con l’ausilio della ‘ndrangheta». E l’espressione “boss delle cerimonie” assume tutto un altro senso. «Consideriamo il contrasto alle mafie come urgenza nazionale, tutte le articolazioni delle nostre comunità devono sentirsi a pieno titolo coinvolte, senza latitudini e senza recinti geografici. E su questo terreno il Pd Calabria farà la sua parte». Il segretario regionale dem Ernesto Magorno, come spesso accade, è stato tra i primi (e più entusiasti) a commentare l’operazione della Dda di Catanzaro che ha disarticolato il clan Farao-Marincola. Tra i 169 arrestati, però, ce n’è uno che imbarazza proprio il Pd calabrese. Perché è uno dei suoi dirigenti. Michele Laurenzano, sindaco di Strongoli, ha costruito tutta la propria parabola politica nel Partito democratico. Ha iniziato a fare politica all’Unical. Da studente raccoglieva messi di voti: l’associazione che animava, Università futura, non aveva aderenze partitiche come le altre sfidanti (più o meno vicine al centrosinistra o al centrodestra). Era, si direbbe oggi, una lista civica d’ateneo. E quel civismo ante litteram pagava già alla fine del vecchio millennio. Laurenzano l’enfant prodige delle preferenze rappresentava gli studenti nel cda del Centro residenziale. Poi cominciò a costruirsi una carriera universitaria: la laurea con lode in Lettere moderne, i primi incarichi al dipartimento di Linguistica, il dottorato, un assegno di ricerca. Sono anni nei quali l’accademia non offre troppe opportunità. Molti sono finiti nell’imbuto del precariato e dei contratti di collaborazione. I rinnovi di anno in anno esposti alle lune dei baroni non fanno per lui. Così Laurenzano devia dal percorso di ricerca e viene assunto – è capitato a tanti rappresentanti studenteschi dell’Unical – a tempo indeterminato dall’università. Il suo curriculum dice “responsabile del settore alloggio e mensa” del Centro residenziale, lo stesso nel quale, per qualche anno, ha illustrato le istanze dei colleghi. È il 2008 e, nonostante gli impegni lavorativi, la prima passione resta sempre la politica. Sono ancora lontani i tempi delle elezioni vittoriose a Strongoli nel 2013 (e lo è anche l’inchiesta della Dda di Catanzaro che lo ha portato in carcere), ma Laurenzano entra – seppure da collaboratore – nei Palazzi che contano. Tra il 2009 e il 2010 lavora nella struttura speciale dell’allora assessore regionale ai Fondi comunitari Mario Maiolo, dal giugno 2010 (cioè nella legislatura successiva) passa al servizio di Francesco Sulla, consigliere regionale crotonese con un posto nell’Ufficio di presidenza di Palazzo Campanella. I suoi “capi” passano, lui resta. Anche nell’era Oliverio, infatti, Laurenzano continua a frequentare il consiglio regionale, questa volta come capostruttura di un altro inquilino dell’Astronave: Antonio Scalzo. L’area, neanche a dirlo, è il Partito democratico. Che – seguendo una consuetudine – offre spazio nelle strutture politici a sindaci e amministratori. Un po’ per fedeltà, un po’ per alimentare il consenso. L’appoggio di Laurenzano, però, da quanto “Stige” non è soltanto una citazione dantesca, è diventato imbarazzante. E dire che il sindaco di Strongoli, nel giorno della nomina della Commissione d’accesso al Comune di Isola Capo Rizzuto, si rallegrava della decisione del prefetto di Crotone sperando che incoraggiasse «un processo di bonifica e sana democrazia dentro alle istituzioni del territorio». Era il 19 maggio 2017. Oggi, i magistrati gli contestano di aver fornito «concreto, specifico, consapevole e volontario contributo» ai componenti del clan Farao-Marincola. Era Leonardo Rispoli l’uomo che governava, per conto del clan Farao-Marincola, sulla “Lega navale” di Cariati. Il suo era un dominio totale, tale da costringere il presidente uscente, Giovanni Cufari, a dimettersi e rinunciare alla rielezione. Estrometterlo è, per Rispoli, un modo per accaparrarsi la gestione delle attività economiche legate al porto della cittadina dello Jonio cosentino. È la riproposizione di quanto già avvenuto a Cirò Marina. Con una differenza: a Cariati la cosca trova un sindaco pronto a denunciare. Lo raccontano le carte dell’inchiesta “Stige”. Filomena Greco è stata il primo cittadino fino alla scorsa settimana, quando otto consiglieri comunali l’hanno sfiduciata, decretando la fine della sua esperienza amministrativa. La sindaca e la sua famiglia (si tratta degli imprenditori del gruppo iGreco) decidono di rivolgersi alle forze dell’ordine per strappare il porto dalle mani della ‘ndrangheta. Suo fratello Saverio, nel febbraio 2016 (prima delle elezioni amministrative), riferisce agli investigatori che «a Cariati era ormai notizia diffusa che esponenti della ‘ndrangheta cirotana erano interessati non solo alla gestione del porto, ma anche alla gestione del correlato mercato ittico, che in quel momento passava anche dall’aggiudicazione di una gara d’appalto che il Comune di Cariati avrebbe dovuto bandire». Sono i giorni nei quali si consumano le minacce ai danni del presidente della “Lega navale”. Qualche mese dopo – è giugno – il sindaco neo-eletto solleva «dall’incarico di responsabile dell’Area Tecnica Antonio Dell’Anno, persona evidentemente asservita alle volontà di Leonardo Rispoli, nominando al suo posto Adolfo Benevento». Il nuovo dirigente annulla la determina con la quale la gestione dell’area portuale era stata affidata al “Circolo Nautico” di Rispoli, unico partecipante alla gara. E la sua vita, d’improvviso, si complica. «Il giorno seguente (21 giugno 2016) alla comunicazione a Rispoli della revoca dell’affidamento – scrive il gip –, Benevento subiva un grave atto intimidatorio, allorché ritrovava davanti al portone d’ingresso della propria abitazione, la carcassa di un cane con il cranio frantumato. Assai difficile – si legge ancora nell’ordinanza di custodia cautelare – non collegare l’intimidazione ai provvedimenti amministrativi appena adottati dal nuovo responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune, che penalizzavano Rispoli e per l’effetto la compagine criminale per conto della quale opera al porto di Cariati». Saranno poi le intercettazioni telefoniche a confermare il contesto ipotizzato da Saverio Greco. I rapporti tra Rispoli e gli esponenti della cosca di Cirò Marina, la collaborazione con i Farlo per l’imposizione del vino prodotto da aziende vicine alla cosca e infine i metodi spicci utilizzati per convincere Giovanni Cufari a non ricandidarsi. La chiave dell’accusa sta in una telefonata registrata il 21 marzo 2016. “Dicono che hai picchiato a quello...il professore Cufari ... quello della Lega?», chiede l’interlocutore di Rispoli. «Si ... l'ho picchiato, gli ho detto! Ormai ... mi frego di loro! …». Per gli inquirenti vale come una confessione.