Di Ugo Barbàra (AGI)

Per combattere le fake news bisogna togliersi i guanti bianchi e indossare i guantoni da boxe. E’ questa la verità: tutto il resto sono chiacchiere. Il fact-checking è sacrosanto, ma a che serve se non si riesce a portarlo fin dentro le case di chi si nutre di bufale e sguazza nelle ipotesi di complotto?

La buona notizia è che se gli avvelenatori di pozzi agiscono nella solitudine delle loro stanzette da nerd, i buoni lo fanno alla luce del sole e, soprattutto, lo fanno insieme. Io li ho visti, i buoni: ho passato due giorni con loro, al TechForum di Bruxelles. E sono stati due giorni esaltanti. Due giorni con menti creative e all’erta, impegnate ad analizzare, confrontarsi e fare proposte, con un unico scopo: rendere quello dell’informazione un mondo migliore. Non un mondo libero da bufalari e cialtroni (quella è una battaglia persa, ma lo è dalla notte dei tempi, non dall’avvento id Internet) quanto piuttosto un mondo in cui sia possibile esporli alla berlina e farlo con le loro stesse armi e le loro strategie. Si è parlato di come fare per riconoscere una foto taroccata da una autentica, un video montato (e magari girato) ad arte per sembrare vero e poi reso virale; si è parlato di come identificare le fonti affidabili e come incrociare le informazioni per verificarle. Ma queste, alla fine, sono solo tattiche. Quello che serve, per affrontare la controinformazione delle balle, è una strategia. E questa strategia il l’ho vista nascere sotto i miei occhi. E si chiama www.forbiddenfacts.com. L’idea è semplice: smontare una bufala parlando lo stesso linguaggio di chi alle bufale abbocca con entusiasmo. Il piano di battaglia è questo:

Creare un sito che abbia lo stesso stile di quelli che diffondono fake news

Usare lo stile delle  fake news per raccontare come stanno veramente le cose

Promuovere i contenuti su Facebook

Spingerli nei gruppi chiusi di Facebook per farli condividere

A me è sembrato geniale, ma il meglio doveva ancora arrivare. Perché, nella giornata in cui Mark Zuckerberg annunciava di voler eliminare la spazzatura da Facebook usando algoritmi sofisticati, qualcuno nella mia stessa stanza stava creando qualcosa di molto simile: Outrage Detector. Letteralmente significa ‘rivelatore di indignazione’ e serve a scovare tutte quelle notizie create ad arte per suscitare rabbia e spingere alla condivisione. Notizie fasulle, ovviamente.

Il principio su cui funziona Outrage Detector è che i titoli di queste fake news hanno sempre  le stesse caratteristiche:

L’uso delle maiuscole

I punti esclamativi (a volte associati a quelli interrogativi)

La citazione di partiti, esponenti politici e media

L’uso di parole a forte impatto emotivo

Attraverso un elaborato (ma nemmeno troppo) incrocio di dati, l’algoritmo identifica i titoli ‘strillati’ e assegna loro un punteggio. L’obiettivo è di marcare automaticamente come inaffidabili quelli con un punteggio altissimo e di sottoporre all’esame umano quelli ‘sospetti’.

 

L’idea è quella di organizzare un hackaton per perfezionare Outrage Detector in modo che non solo funzioni al meglio, ma sia in grado di migliorarsi da solo, arricchendosi di elementi nuovi ogni volta che i bufalari aggiungono elementi nuovi. Ma è anche un meccanismo destinato a restare fine a stesso se qualcuno non decide di sfruttarlo. Ed è qui che le testate giornalistiche (quelle serie) devono fare la loro parte. Se davvero un fact-cheching al giorno non basta, allora perché non usare questo algoritmo per stanare almeno una fake news al giorno e sbugiardarla su vasta scala? E’ una sfida, forse più tattica che strategica, ma quella contro le fake news non è una guerra, ma una guerriglia e va combattuta sito per sito, fake news dopo fake news  come si combatterebbe vicolo per vicolo, casa per casa.

 

Fonte sito dell’Agi (Agenzia giornalistica utaliana)

Crediti