di Andrea Monda (articolo tratto dall'Osservatore Romano di oggi)

La memoria non riguarda il passato. Ha a che fare con il futuro. Non solo perché «chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo».

La frase di George Santayana, che campeggia incisa in trenta lingue sul monumento all’ingresso del campo di concentramento di Dachau, evidenzia una sensibilità che nel tempo è andata progressivamente maturando e oggi è molto avvertita soprattutto in ambito educativo e scolastico. Ma la memoria riguarda il futuro anche per un altro motivo, perché il monito a non dimenticare è ancora troppo legato al passato e soprattutto suona minaccioso: il tono, di fatto, è negativo, pessimista. La memoria ha a che fare con la gioia. La storia biblica del popolo d’Israele sta qui a proclamarlo a chiare lettere: la memoria non è di un glorioso passato ormai andato perduto, non è nostalgia, ma speranza, perché è memoria di una promessa. Il popolo di Dio è il popolo dell’attesa e della promessa, cioè di una parola rivolta al futuro, non come minaccia, ma come segno d’amore, affettuoso incoraggiamento. Il Signore infatti non si dimentica delle sue promesse. Lui è il primo a esercitare la memoria, come canta Maria nel Magnificat : «Ha soccorso Israele, suo servo / ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri». (Luca, 1, 54-55). E le sue promesse non deludono: «Forse Egli dice e poi non fa? / Promette una cosa che poi non adempie?» (Numeri, 23, 19). Questa è la fede, sentire e sapere che la promessa di Dio non delude. Ecco allora che ricordare non è un atteggiamento malinconico che guarda la vita con tristezza voltandosi indietro, ma è “riportare al cuore”, ripartire dalla fonte, rimettersi in marcia con lo slancio del primo amore e muoversi in avanti con lo sguardo fiducioso verso l’alto. In avanti e in alto. Tutto questo è oggi, guardando al domani.

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