Fonte: Comunicato stampa
Cosa si intende per divario civile?
Uno dei temi che più caratterizza la questione sociale in Italia è quello del divario civile. Questa espressione viene utilizzata per segnalare il fatto che il contenuto effettivo dei diritti sociali di cittadinanza cambia a seconda dei luoghi, e tutto questo alimenta le disuguaglianze territoriali.
Il progetto di autonomia differenziata[1], sostenuto da alcune forze politiche e dalle regioni più ricche, rende ancora più opachi il presente e il futuro del Paese. Tali problematiche hanno importanti riverberi anche sul piano pastorale, come si vedrà nella seconda parte dell’articolo. Il dibattito sul divario mostra come in Italia le differenze territoriali non si esprimono solo sul piano economico, e permette di andare alla radice dei processi che alimentano le disuguaglianze, particolarmente evidenti lungo l’asse Nord-Sud, ma che si vanno sempre più diffondendo su tutto il territorio. In uno Stato unitario ai cittadini vanno assicurate uguali opportunità di accesso ai beni di cittadinanza, a prescindere dal luogo di residenza e dal grado di sviluppo produttivo locale. Tuttavia, in Italia il divario civile è più accentuato di quello economico, ed è anche più preoccupante, poiché indebolisce il senso di appartenenza ad un’unica comunità nazionale: “l’evidenza che un calabrese ammalato non possa curarsi nella propria città con la stessa tempestività ed efficacia di un lombardo è meno accettabile, sotto il profilo dell’equità, della circostanza che lo stesso calabrese possa fare riferimento a un reddito disponibile pari ad appena la metà di quello medio dei lombardi”[2]. Il divario è particolarmente evidente non solo rispetto alla sanità, ma anche all’istruzione, ai servizi sociali e alla questione ambientale, ovvero rispetto agli ambiti da cui dipende la qualità e l’estensione dello sviluppo umano autentico. Nel corso degli ultimi anni, la forbice tra i sistemi sanitari territoriali si è allargata sempre di più, in quanto molte regioni meridionali hanno dovuto apportare tagli significativi alla spesa sanitaria per ragioni di squilibrio finanziario. Tra i tanti disponibili, i dati sulla mobilità interregionale sono tra quelli che più fanno risaltare le carenze del sistema sanitario meridionale: ogni anno, circa 200 mila persone si spostano dal Sud al Nord per curarsi. Sul totale dei ricoveri acuti di quanti risiedono nelle regioni meridionali, uno su dieci si svolge in strutture ospedaliere localizzate altrove, prevalentemente al Nord. Il costo della migrazione sanitaria a carico delle regioni del Mezzogiorno è pari a più di un miliardo di euro all’anno[3]. Inoltre, rispetto ai coetanei del nord, i giovani meridionali partecipano di meno all’istruzione secondaria, abbandonano di più la scuola ed esprimono mediamente un livello di competenze inferiori[4]. Differenze notevoli marcano anche i sistemi locali dei servizi sociali alla persona: tutte le regioni meridionali, tranne la Sardegna, spendono meno della media nazionale. Più della metà della spesa è concentrata al Nord, dove risiede circa il 46% della popolazione, il restante 44% delle risorse è ripartito in misura variabile tra Centro e Mezzogiorno. I Comuni del Sud, dove risiede il 23% della popolazione italiana, erogano l’11% della spesa per i servizi sociali. La spesa sociale pro capite del Sud rimane molto inferiore rispetto al resto dell’Italia (119 euro in media): 58 euro contro valori che superano i 115 euro annui in tutte le altre ripartizioni, toccando il massimo nel Nord-est con 172 euro. Le differenze territoriali sono rilevanti per tutte le aree di intervento; ne deriva che persone che vivono una stessa condizione di bisogno accedono a panieri di servizi e prestazioni differenziati per territorio: ad esempio, la spesa annua per servizi e interventi a sostegno di una persona disabile che risiede al Nord-est è pari a circa 5.222 euro, al Sud è di circa 1.074 euro[5]. L’esistenza di linee di frattura territoriali viene confermata anche da una recente indagine condotta da Caritas e Legambiente[6], che alla luce del paradigma dell’ecologia integrale tenta di connettere la dimensione sociale e quella ambientale. Le informazioni più significative della ricerca sono quelle inerenti alla lettura combinata delle fragilità e delle risorse ambientali e sociali. Da questa analisi affiora l’ennesima conferma di un paese spaccato in due, con quasi tutte le regioni del Nord collocate nel saldo positivo, mentre quelle del Sud presentano un deficit complessivo rimarchevole, in quanto le fragilità sociali condizionano in modo rilevante la qualità della vita della popolazione residente. La presenza diffusa delle organizzazioni mafiose, non estranee, peraltro, a gravi fenomeni di degrado ambientale, come i reati ambientali, peggiora ulteriormente la situazione già in sé precaria. Se il dualismo economico è un tratto che caratterizza molte economie, e può essere anche considerato come un aspetto fisiologico della crescita, la questione del divario civile è invece inaccettabile. Negli altri Paesi europei con regioni economicamente arretrate non si registrano differenze analoghe sul piano della qualità e della quantità dei servizi pubblici. Al contrario, attraverso politiche sociali efficaci, è stato possibile ridurre la correlazione tra bassi livelli di reddito e scarsa disponibilità quanti-qualitativa di servizi essenziali come scuola, sanità, sicurezza e a comprimere le disparità a livello tra territori. Se il disegno di autonomia differenziata dovesse tradursi in realtà, diventerebbero probabilmente ancora più difficili le condizioni dei territori più fragili, con gravissimi rischi per la tenuta complessiva della coesione sociale del Paese.
Le nuove mappe del divario civile. La questione delle aree interne
Di recente, la questione dei divari di cittadinanza è stata rilanciata anche alla luce degli effetti del Covid-19 e della crisi che ha innescato, forse la più profonda dal dopoguerra. Alcuni studiosi sottolineano l’urgenza di prendere coscienza di cosa sia oggi davvero il Mezzogiorno, senza il cui apporto diventa complicato pensare ad un effettivo rilancio del Paese. E aggiungono che è fondamentale promuovere un patto tra Nord e Sud, più che mai necessario per evitare divisioni irreversibili tra le due aree: “l’apparato produttivo del Nord va supportato per evitare che si spenga il motore della crescita italiana, per la verità da tempo meno roboante di altri motori del Nord Europa. Ma c’è un pezzo di Paese che ha il motore spento da tempo e va riacceso. A partire dalle fondamenta, dalla ricostruzione dei diritti di cittadinanza negati”[7]. Altri studiosi, senza negare la necessità di tenere alta l’attenzione sulle disuguaglianze Nord-Sud e sui loro effetti, mostrano come l’Italia intera sia disseminata di “territori del margine”[8], per cui propongono di allargare la portata della riflessione sui divari di cittadinanza, facendone una chiave di lettura della questione sociale di tutto il Paese. Questa prospettiva di analisi propone di mettere al centro i bisogni delle persone che vivono nei luoghi, che vengono perciò distinti in base alle opportunità concrete di esercitarvi i diritti di cittadinanza. La mappa del divario civile è un altro modo di leggere la disuguaglianza su base territoriale; un modo che integra e arricchisce la lettura verticale, ovvero quella condotta lungo l’asse Nord-Sud, in quanto rivela che i divari di cittadinanza sono dappertutto. In questa nuova mappa, elaborata nell’ambito della Snai (Strategia nazionale per le aree interne), la dimensione fondamentale considerata non è quella urbana (definita in base al numero di abitanti) ma quella del divario civile, per cui vengono considerati poli i comuni singoli o aggregati che permettono un agevole accesso ai servizi (scolastici, sanitari, di trasporto) considerati essenziali, mentre i comuni restanti, quelli periferici, sono divisi in quattro fasce, a seconda della loro distanza dai poli. La mappa delle aree interne che viene costruita utilizzando tale classificazione dà risultati sorprendenti: essa comprende il 60% del territorio e il 52% dei comuni, interessa più di 13 milioni di abitanti, coinvolge soprattutto le Alpi, la fascia appenninica e le zone collinari. Se si va più in profondità nell’analisi dei dati, ci si rende conto non solo della diffusione ma anche della eterogeneità delle aree interne, la cui presenza viene ad esempio segnalata tanto nelle campagne della pianura padana che si vanno spopolando, quanto nelle aree costiere del centro-sud, popolate solo d’estate e prive di servizi per la popolazione residente. Le situazioni più complicate si riscontrano soprattutto nelle realtà più periferiche tra quelle marginali: sono aree montane e collinari, che registrano una prevalenza di popolazione anziana, anche come effetto di un progressivo spopolamento, con tassi di occupazione e redditi medi inferiori rispetto a quelli delle zone centrali, con territori in stato di abbandono, segnalato dalla perdita di superficie agricola utilizzata e da fenomeni di dissesto idrogeologico.
Ripartire dai margini
Alla luce di questa analisi, è importante assumere come prospettiva privilegiata quella delle aree interne, allo scopo di favorirne l’emancipazione, anche attraverso la mobilitazione degli attori appartenenti a tali contesti. Il movimento emancipatorio non esclude l’azione delle istituzioni pubbliche e le politiche di welfare, ma le accompagna attraverso l’esercizio della solidarietà dal basso. Sono esempi di emancipazione le forme di autorganizzazione di cittadini; le esperienze di mutualismo, di accoglienza e di cittadinanza attiva; i processi di welfare comunitario. L’emancipazione “riporta al centro la costruzione di comunità, in una dimensione aperta, sia come elemento terzo tra Stato e mercato, sia come modalità organizzativa inedita dei diritti di cittadinanza. Cooperative di comunità che erogano servizi, infermieri e ostetriche di comunità che si inseriscono nella rete di assistenza territoriale, asili nel bosco e agri-asili, sistemi di mobilità a chiamata gestiti in forma no-profit, nuove no-profit utility locali per la gestione di risorse ambientali e di servizi alla popolazione, volontari organizzati per offrire momenti di socialità agli anziani a domicilio, badanti di borgo, cooperative di educatori che offrono nuovi modelli didattici per innovare la scuola e accrescere le competenze degli studenti (…). Queste innovazioni che spostano l’erogazione di servizi verso un nuovo paradigma di welfare rappresentano modi innovativi di composizione e aggregazione della domanda sociale, capaci di valorizzare le risorse relazionali. Si tratta di nuove forme di mutualità ancorate ai territori e alle comunità, che hanno importanti implicazioni sociali, perché promuovono una (ri)socializzazione dei rischi e la condivisione dei bisogni”[9]. Tali esperienze non sono alternative alle altre agenzie, ma sono espressione di una comunità che si auto-organizza, attraverso processi di attivazione radicati nei territori. Lo Stato non si defila, ma si pone come garante del bene comune e delle regole generali entro cui si sviluppano questi percorsi di autorganizzazione; per altro verso, “assume una postura promozionale e capacitante non solo nei confronti degli individui, ma anche verso i contesti più fragili e deprivati”, promuovendo partecipazione diffusa[10]. Percorsi emancipatori di questa natura sono possibili nei contesti in cui riescono ad attivarsi reticoli comunitari, ambienti capaci di promuovere la tessitura intenzionale e continua di relazioni dotate di senso e, al tempo stesso, l’assunzione di responsabilità nei confronti dei più fragili. Si tratta di cammini che possono diventare importantissimi per un riorientamento delle politiche pubbliche, chiamate a riconoscere le diversità dei luoghi, e a garantire dappertutto i livelli essenziali di cittadinanza, a partire dai contesti più periferici, in modo che ognuno possa vivere effettivamente una vita degna di essere vissuta.
Le disuguaglianze su base territoriale e le proposte delle Chiese del Mezzogiorno. Che fare oggi?
Le disuguaglianze territoriali hanno sollecitato l’attenzione della Chiesa italiana già a partire dall’immediato secondo dopoguerra. Uno studio di Matteo Prodi[11] presenta il contenuto di tre lettere dei vescovi italiani sul Mezzogiorno, pubblicate rispettivamente nel 1948[12] , nel 1989[13] e nel 2010[14], ricostruendo per ognuna le vicende sociali e politiche che fanno da sfondo. Per il fatto di essere stati realizzati in momenti diversi, lungo un arco temporale di circa sessant’anni, i testi considerati presentano inevitabili differenze di stile e di contenuti, ma anche elementi comuni e, in alcuni casi analisi e proposte ancora attuali. In tutti e tre i documenti, ad esempio, traspare la convinzione che il Vangelo spinga a misurarsi con la vita concreta delle persone, con le tensioni e le contraddizioni della storia, per cui le situazioni di ingiustizia debbano essere rilevate e denunciate. Si afferma perciò la necessità di un impegno personale e comunitario orientato a riconoscere e a contenere o rimuovere le disuguaglianze che segnano il Paese. Un altro elemento ricorrente è la denuncia del mancato sviluppo del Sud e dei mali che colpiscono le regioni meridionali, come la disoccupazione e la criminalità organizzata. Particolarmente rilevanti, e in parte ancora attuali, le analisi contenute nella lettera del 1989. Pubblicata alla fine del periodo di massimo sviluppo dell’economia e delle politiche di welfare, essa pone in evidenza i caratteri dello sviluppo del Paese, definendolo incompleto e distorto. Incompleto perché ha lasciato indietro le regioni meridionali. Distorto, perché “non solo non si è consentito al Mezzogiorno di svilupparsi come altre regioni, creando disuguaglianze interne ed esterne, ma addirittura lo si è incanalato verso strade che ne hanno peggiorata la situazione”[15], attraverso l’importazione di modelli di organizzazione industriale che non hanno tenuto conto delle realtà locali e la penetrazione – facilitata dai media – di modelli culturali che hanno avuto effetti disgreganti sul piano sociale ed economico. Successivamente, la lettera del 2010 parlerà di sviluppo bloccato, a proposito del fatto che i cambiamenti avvenuti nel corso dei due decenni precedenti avevano reso ancora più stagnante la situazione del Mezzogiorno. Nei tre testi si propone una idea di sviluppo che non consideri solo gli indicatori economici, ma che metta al centro le persone, le risorse e le vocazioni dei territori. A questo riguardo, anticipando alcuni temi che ritroviamo oggi nel magistero di papa Francesco, la lettera del 1989 evidenzia la necessità di “ripensare il modello economico, in particolare il mercato, e il modello antropologico di fondo, allontanandosi dall’individualismo, dal soggettivismo e dalla ricerca del godimento immediato. Questi due ripensamenti devono stare insieme: solo una comprensione piena e profonda dell’uomo può aiutare a rinnovare l’economia, mettendo la persona al di sopra del capitale, senza che il profitto e l’accumulo siano gli idoli a cui sacrificare ogni scelta economica”[16]. Per contrastare l’egemonia pervasiva del mercato, il documento suggerisce prospettive ancora validissime, quando sottolinea la necessità di politiche redistributive efficaci, in grado di affrontare il grave problema della mancanza di lavoro, per esempio mediante l’allestimento di strutture, infrastrutture e servizi in grado di favorire la nascita di realtà produttive locali. Nelle tre lettere si evidenzia anche il fatto che uno sviluppo autenticamente umano esiga come essenziale presupposto un lavoro orientato a favorire la maturazione delle coscienze e del loro peso interiore. Da qui l’importanza dell’impegno educativo, a tutti i livelli, e in particolare della scuola e dell’università. Sono particolarmente densi i passaggi in cui si esplicitano le condizioni affinché la Chiesa possa essere soggetto in grado di contribuire a promuovere questo tipo di sviluppo. Si tratta di condizioni che esigono la scelta della strada stretta, ma liberante, del radicamento personale e comunitario nella profezia dell’ascolto del Vangelo, in una condizione di povertà e di non potere. In continuità con queste indicazioni magisteriali, occorre raccogliere la sfida del divario civile e delle aree interne anche dal punto di vista pastorale, interrogandosi su quale tipo di presenza la Chiesa è oggi chiamata a garantire in tali contesti periferici. Nelle pagine precedenti, si è evidenziata l’importanza, sul piano politico, di invertire lo sguardo e guardare il Paese dalle sue aree interne, e da lì provare a pensare come riabitarlo, come sostengono i promotori del “Manifesto per riabitare l’Italia”[17], mettendo al centro le persone che vivono nei luoghi, dando loro voce, promuovendone la capacità di attivazione. Ad un movimento analogo di conversione dello sguardo è chiamata anche la Chiesa, che nelle aree interne potrebbe trovare le condizioni favorevoli per una rigenerazione delle comunità, riscoprendo la centralità di ciò che conta e che non passa: la Parola e l’Eucarestia, la tessitura intenzionale di legami fraterni, l’assunzione comunitaria dei bisogni dei più fragili. Più che nell’attivismo frenetico, o nella gestione di progetti di intervento complessi – che hanno bisogno di molte risorse finanziarie e di competenze specifiche sul piano gestionale, ma che non sempre riescono a promuovere un reale coinvolgimento dal basso – le comunità cristiane delle aree interne potrebbero coltivare la prospettiva della “restanza”[18], da intendere come assunzione consapevole della responsabilità dei luoghi in cui si abita: “là dove si è rimasti bisogna cercare di costruire e di immaginare una nuova vita. non possiamo limitarci solo a contare i morti, non possiamo farci inghiottire dalle ombre e dai fantasmi del passato (…). Il nostro compito è anche accogliere la vita che arriva, ricevere quelli che tornano, provare a sostenere quanti non vorrebbero partire (…), sperando che anche questo possa servire a costruire nuova comunità”[19]. La cura della natura e delle relazioni, la resistenza ai fenomeni di devastazione dei luoghi e di desertificazione sociale, rappresentano atti politici e, al tempo stesso, pastorali. Per dirla ancora con Teti, “riabitare i paesi interni, riabitare la montagna, guardare al centro dalla prospettiva inedita e umanissima della periferia, mi sembra possa essere una delle vie di salvezza per l’intero sistema-Paese. (…) Il mio non è un elogio del restare come forma inerziale di nostalgia regressiva, non è un invito all’immobilismo, ma è solo il tentativo di problematizzare e storicizzare le immagini-pensiero del rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuove rivendicazioni”[20].
✠ Francesco Savino
Vescovo di Cassano all’Jonio
Vice Presidente CEI