Fino agli anni settanta in tutti i nostri centri e paesi “u vicinanz” era una sorta di agorà capace di sprigionare una carica di umanità, solidarietà e dello stare insieme, talmente forte che ancora oggi, soprattutto coloro che hanno vissuto quella splendida esperienza di vita, ne parlano con molta nostalgia “perché – ci dicono – da li proveniva la vera solidarietà e umanità”.

Ecco perché l’iniziativa organizzata e voluta dalla Pro Loco di Corigliano Calabro, in programma lunedì 16 agosto a partire dalle ore 20 nel centro storico coriglianese, assume un valore non solo di nostalgia, ma anche di speranza verso la riconquista, in questa nostra società veloce, assente e individualista, di quei valori autentici che “u vicinanz” sapeva esprimere ed inculcare in tutti coloro che lo vivevano intensamente. L’iniziativa  del 16 agosto è organizzata in collaborazione con il Comitato dei commercianti di Corigliano centro storico presieduto da Enzo Natozza, Comitato che da sempre è impegnato anche nel riproporre storie e tradizioni locali. Per quella sera saranno in programma momenti musicali, intrattenimento, enogastronomia, arte e artigianato. Questa magnifica ed interessante iniziativa, però, proprio per la portata del messaggio che ci consegna in questo particolare momento storico, ci suggerisce questa riflessione.  La storia degli ultimi decenni ha interpretato unilateralmente come una conquista il crescente individualismo che si è andato affermando a livello sociale ed esistenziale. Soprattutto tra i giovani, cresciuti all’ombra di una cultura insofferente verso ogni forma di obbligo interiore o di vincolo esteriore che ingessi le scelte del singolo e svilisca la soggettività, si è fatto strada il culto di una libertà assoluta e inderogabile, da perseguire a tutti i costi e a qualsiasi prezzo. Una libertà intesa come indipendenza illimitata, come autonomia incomprimibile nei confronti di qualsiasi legame che, a lungo andare, possa rischiare di restringere il proprio spazio d’azione, come capacità di autodeterminarsi in ogni situazione, rispondendo unicamente ai propri bisogni e desideri. Una libertà che, per difendere se stessa, non esita a scavare fossati e innalzare steccati insormontabili. Accade così che un valore di per sé positivo, frutto di lotte secolari e di più recenti battaglie in direzione del riconoscimento di sempre nuovi diritti, si trasformi talvolta in una trappola, in una “cella di lusso” – come l’ha definita qualcuno – che, mentre ci regala il miraggio di poter difendere la nostra vita da ogni condizionamento esterno e dalle intrusioni altrui, ci condanna alla solitudine esistenziale, al silenzio assordante dell’assenza di relazioni, erigendo un muro sempre più alto tra noi e chi ci vive accanto. Forse mai come in questo momento storico ne stiamo acquisendo consapevolezza! La smania di salvaguardare la nostra privacy, il nostro “spazio vitale”, il nostro diritto insopprimibile a una libertà che non conosce limiti o compromessi, ci ha reso sordi alle richieste di aiuto di chi ci sta intorno, indifferenti a quello che accade oltre il recinto impenetrabile del nostro giardino, sempre più diffidenti e distanti nei confronti degli altri. E se tanto abbiamo guadagnato in benessere e sicurezza, altrettanto abbiamo perso in termini di “umanità”. Ciò non significa, tuttavia, che il processo sia irreversibile. Anzi proprio la crisi profonda che la nostra società sta attraversando, se da un lato ha contribuito a sgretolare l’illusione che il nostro stile di vita fondato sul primato assoluto dell’individuo e dei suoi bisogni soggettivi potesse durare indefinitamente, dall’altro ci pone di fronte all’urgenza, ormai non più derogabile, di recuperare il valore della “compassione” e della solidarietà. È nel riconoscerci come ospiti di passaggio della stessa Terra, tutti ugualmente fragili e smarriti nell’attraversare la tempesta della vita, che possiamo riscoprire l’importanza del contributo di ciascuno per costruire un mondo più giusto e accogliente verso ogni donna e ogni uomo. È nel condividere la stessa sorte di sofferenza e disorientamento, fatta di fallimenti e costole rotte, che possiamo ricominciare a sentirci vicini, “diversi, eppure uguali” nel nostro universale bisogno di amore e felicità. Un’“utopia possibile”, in cui si possa essere autenticamente liberi anche senza disegnare confini, in cui l’individualismo incondizionato lasci il posto a stili di vita più aperti e solidali, rispettosi della dignità di ognuno, in cui la consapevolezza di appartenere alla stessa comunità umana ci faccia sentire responsabili della salvezza di ogni nostro fratello e ci aiuti a riscrivere la grammatica della reciprocità.

Crediti