Fonte: www.giornalistitalia.it
In attesa del verdetto della Corte Costituzionale, atteso tra alcuni mesi, la 5ª sezione penale della Cassazione ha ribadito il suo fermo no al carcere – seppure con pena sospesa – per i giornalisti condannati per il reato di diffamazione a mezzo stampa.
Lo ha fatto annullando la condanna a tre mesi di reclusione inflitta al giornalista calabrese Fabio Buonofiglio, direttore del periodico “Altre Pagine”, iscritto al Sindacato Giornalisti della Calabria. Motivo: la detenzione per questo reato, prevista sia dall’art. 595 del codice penale art. 595 che nella legge sulla Stampa, la n. 47 del 1948, é incompatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La detenzione può essere giustificata solo in casi del tutto eccezionali, cioè quando siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, discorsi di odio o di istigazione alla violenza. Tranne in questi casi di fronte a condanne per diffamazione gli ermellini di piazza Cavour hanno esortato i giudici italiani a non infliggere più il carcere, ma eventualmente solo multe. La Suprema Corte, ribadendo quanto già affermato in un’altra decisione di cinque anni fa, hanno quindi sancito un principio di civiltà giuridica che non solo può essere ormai considerato “diritto vivente”, ma per di più potrà supportare la Consulta in vista della sua attesa pronuncia su questa importante e tanto dibattuta questione in tema di libertà di stampa e di diritto di cronaca, spronandola a sanare un vulnus che nel nostro Paese dura ingiustificatamente da troppo tempo e su cui, purtroppo, il Parlamento da decenni non é riuscito incredibilmente a legiferare (il 18 giugno scorso a Napoli lo stesso premier Giuseppe Conte si era impegnato ad affrontare l’argomento), nonostante pubblici appelli e progetti di legge presentati, tra gli altri, da Fnsi, Consiglio nazionale Ale dell’Ordine dei giornalisti e Fieg. Insomma, il carcere appare incompatibile con il diritto di cronaca e rappresenta un limite sostanziale alla libertà di informazione e quindi al sistema democratico del nostro Paese. La sentenza n. 38721 del 19 settembre 2019, emessa dalla quinta sezione penale della Cassazione (presidente Paolo Antonio Bruno, relatore Michele Romano), assume quindi particolare rilievo. I supremi giudici hanno ricordato che la Cedu, Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, “con la sentenza pronunciata nella causa Sallusti contro l’Italia del 7 marzo 2019 e ancor prima con la sentenza Belpietro contro Italia del 24 settembre 2013, ha affermato che la pena detentiva inflitta ad un giornalista responsabile di diffamazione è sproporzionata in relazione allo scopo perseguito di proteggere la altrui reputazione e comporta una violazione della libertà di espressione garantita dall’art. 10 Cedu. Più precisamente la Corte, con la sentenza nella causa Sallusti contro Italia del 7 marzo 2019, «ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza» e precisa che la violazione sussiste anche se la pena detentiva è stata sospesa”. Applicando questi principi la Cassazione ha definitivamente annullato la pena, condizionalmente sospesa, di tre mesi di reclusione, inflitta dalla Corte di Appello di Salerno a Fabio Buonofiglio, direttore del periodico calabrese «Altre Pagine» di Corigliano-Rossano (Cosenza), per un articolo pubblicato il 13 agosto 2011 e intitolato «L’allegra compagnia d’una giustizia che va a puttane», che era stato ritenuto gravemente lesivo della reputazione del magistrato Maria Vallefuoco, sostituto procuratore della Repubblica di Rossano. Nonostante che la sua condanna al carcere – anche se sospesa – sia stata cancellata e che il reato di diffamazione sia caduto in prescrizione, il giornalista rischia comunque di essere condannato in un prossimo giudizio in sede civile a risarcire i danni in favore del pm calabrese che si era costituito parte lesa nel processo penale. La pronuncia della Suprema Corte ribadisce quanto già affermato nella sua precedente decisione della quinta sezione penale n. 12203 del 13 marzo 2014 (presidente Gennaro Marasca, relatore Grazia Lapalorcia). In quell’occasione fu osservato che “l’irrogazione della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria, pur a seguito del riconoscimento di attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, non sembra rispondere alla ratio della previsione normativa che, nel prevedere l’alternatività delle due sanzioni, palesemente riserva quella più afflittiva alle ipotesi di diffamazione connotate da più spiccata gravità”. Per contrastare l’applicabilità della pena detentiva non fu neppure trascurato l’orientamento della Corte Cedu che, ai fini del rispetto dell’art. 10 della Convenzione relativo alla libertà di espressione, esige la ricorrenza di circostanze eccezionali per l’irrogazione, in caso di diffamazione a mezzo stampa, della più severa sanzione, sia pure condizionalmente sospesa, sul rilievo che, altrimenti, non sarebbe assicurato il ruolo di “cane da guardia” dei giornalisti, il cui compito è di comunicare informazioni su questioni di interesse generale e conseguentemente di assicurare il diritto del pubblico di riceverle (sentenza del 24 settembre 2013 Belpietro contro Italia). In un altro passaggio della decisione n. 12203 del 2014 fu sottolineato che “la libertà di espressione costituisce un valore garantito anche nell’ordinamento interno attraverso la tutela costituzionale del diritto/dovere d’informazione cui si correla quello all’informazione garantito dall’art. 21 della Costituzione, diritti i quali impongono, anche laddove siano valicati i limiti di quello di cronaca e/o di critica, di tener conto, nella valutazione della condotta del giornalista, della insostituibile funzione informativa esercitata dalla categoria di appartenenza, tra l’altro attualmente oggetto di gravi ed ingiustificati attacchi da parte anche di movimenti politici proprio al fine di limitare tale funzione”. In quella sentenza fu anche ricordato che all’epoca il legislatore ordinario italiano era “orientato al ridimensionamento del profilo punitivo del reato di diffamazione a mezzo stampa” (ma poi tutto é rimasto nei cassetti di Montecitorio e di palazzo Madama, n.d.r.). Sulla legittimità del carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione si esprimerà entro la prossima primavera la Corte Costituzionale. Come é noto alla Consulta è arrivata l’ordinanza emessa il 9 aprile scorso dal giudice monocratico della seconda sezione penale del Tribunale di Salerno, Giovanni Rossi, nel corso del processo per diffamazione a carico dell’ex collaboratore del “Roma” Pasquale Napolitano e del direttore del giornale Antonio Sasso. Per il giudice Rossi il carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa va contro quanto previsto dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e violerebbe anche libertà e principi fondanti sanciti dagli articoli 3, 21, 25, 27 e 117 della nostra Costituzione. La relativa ordinanza n. 140 é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 18 settembre scorso e il termine per le parti (compresi eventualmente il Cnog e la Fnsi) per costituirsi scadrà l’8 ottobre prossimo. Nel frattempo é pervenuta a palazzo della Consulta un’altra ordinanza di cui non si era mai data alcuna notizia. È stata emessa dal tribunale di Bari – sede di Modugno – il 16 aprile scorso ed é stata registrata in cancelleria con il n. 149. Viene eccepita l’incostituzionalità sempre dell’art. 13 della legge sulla stampa dell’8 febbraio 1948 n. 47 in combinato disposto con l’art. 595, 3° comma, del codice penale per presunta violazione dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione in relazione all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia diritti dell’uomo e libertà fondamentali, in quanto sarebbe illegittima la pena cumulativa della reclusione, invece che in via alternativa, per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Entro i primi di ottobre il presidente dell’Alta Corte, Giorgio Lattanzi, dovrebbe quindi fissare la data dell’udienza pubblica per entrambe le ordinanze dei tribunali di Salerno e Bari. La sentenza é attesa entro la prossima primavera.