Fonte: http://laboratoriocamenzind.blogspot.com
di Tommaso Greco
Gli umani hanno risorse che dimenticano di avere e che riscoprono nei momenti più bui, quando l’umanità sembra perduta. Si tratta, nella sostanza, della capacità di essere…umani.
È questa la risorsa fondamentale, che riemerge in ogni occasione nella quale tutto intorno vuole farci credere che il mondo sia finito, che non ci sia più speranza, che la negazione di ciò che ci fa essere uomini e donne abbia vinto definitivamente sulla sua affermazione. Una risorsa che abbiamo visto emergere dalle testimonianze dei sopravvissuti ai campi di sterminio, e che ritorna nelle piccole e nelle grandi tragedie, quando un gesto, una parola, uno sguardo, riescono a salvare quel po’ di umano che ancora resiste, custodendolo e trasportandolo nel futuro. È grazie alla volontà — e alla capacità di alcuni — di restare umani, se l’umanità ancora persiste. Salvatore Martino, insegnante e scrittore che vive e opera in Calabria nel territorio di Corigliano-Rossano, ha appena pubblicato un libricino di poesie (corredato peraltro da foto bellissime di cui è autore Romano Siciliani) nel quale l’umanità si afferma prepotente proprio nel momento in cui assiste al suo doloroso naufragio. “…e non riuscimmo ariveder le stelle” — questo il titolo della raccolta, pubblicata da Tau editrice, con il patrocinio della Fondazione Migrantes — esprime tutta la disperazione di coloro che vedono nel Mediterraneo una prospettiva di salvezza e invece vi trovano una fine tragica. Nei versi di Salvatore Martino sono spesso i naufraghi a prendere la parola, a dirci la loro incredulità nel vedersi abbandonati ad un destino di morte. E già questo far prendere la parola a coloro che ormai siamo abituati a chiamare (nella migliore delle ipotesi) i “migranti” è un gesto che salva l’umanità attraverso l’assunzione dello sguardo degli ultimi e dei più disperati. Uno sguardo che mette tutti gli altri — cioè noi — davanti al proprio egoismo, alle proprie miserie, alle proprie vite fatte di paura e diffidenza. E la poesia di Salvatore nasce proprio dalla incredulità. «L’uomo contemporaneo — scrive nella introduzione — non può avere perso la sua umanità, non può avere dimenticato la sua storia, non può, soprattutto, aver sostituito i valori del rispetto della vita, della fratellanza, dell’amicizia, della cooperazione, dell’aiuto ai più deboli e ai più poveri con l’egoismo, la difesa dei propri interessi, il disprezzo, l’odio». Noi sappiamo che l’uomo può dimenticare i suoi valori, ma sappiamo anche che ci sarà sempre chi si batterà perché questa dimenticanza non sia generale né definitiva. Salvatore Martino è tra questi; lo testimonia — chi lo conosce lo sa bene — non soltanto con la poesia. E se nella introduzione al suo libro utilizza le armi della ragione, ricordando agli italiani di essere stati «migranti nel mondo» e di aver subito sulla propria pelle «lo sfruttamento, il pregiudizio, le angherie e le esclusioni sociali», nei versi usa invece il registro della compassione, invitandoci ad indossare le vesti — e a guardare con gli occhi, ad ascoltare con le orecchie, a toccare con le mani — di coloro che salgono su un barcone in cerca della vita e si ritrovano aggrappati ad un pezzo di legno aggrediti dalla morte. È un invito a guardare alle cose prendendo il posto degli ultimi, quello di Salvatore, ed è un invito che porta a incrociare lo sguardo innocente di un bambino che ha visto sua madre affogare «in quel mare azzurro / che tutti e due ammiravano / la sera prima del tramonto / sognando dall’altra parte il mondo», oppure a sentire i brividi di terrore di coloro che,«tenuti in catene dalla fame / attendono il rais di bordo / che li porti nel mondo degli umani». Ed è un invito, anche — e forse soprattutto — a percepire la grande quantità di dolore che si cela nelle cose che osserviamo tutti i giorni, come nelle onde del mare che sono per noi una dolce compagnia dell’estate e che invece possono diventare un tormento se in esse sentiamo «l’eco di una voce amara […] / che correva insieme al vento e naufragava». Certamente, dati i tempi, è una poesia civile, questa di Salvatore Martino, già autore di numerosi studi storici e politici: una poesia che ad esempio vede lucidamente che nei tempi bui la legge non è per gli ultimi, dato che è per colpa di leggi disumane se «affogano i miei sogni/in un mare di cavilli ripugnanti» e se le leggi «prevaricano / il diritto ad esistere / e a vivere su una terra / creata da Dio / ma sfigurata dall’uomo». Una poesia che dunque ci richiama alle nostre responsabilità, che poi non sono altro che quelle di essere umani, nei confronti di noi stessi ancora prima che degli altri. Se siamo disumani con chi affonda nel dolore, infatti, è perché abbiamo dimenticato l’umanità che è in noi. Il buio del mare nel quale affondano le vite e le speranze di uomini donne e bambini non è altro che il buio del nostro cuore.
Umanità persa
In un mare increspato di ombre
su una chiatta torchiata dal vento
rantoli di carne olivastra
vagano alla ricerca
d’un impreciso ausilio
Un carico di paure
di tremori e di ansie
descrivono più periglioso il transito
Una umanità confusa
di uomini
di donne incollate ai loro lattanti
di giovani sconfitti dalla paura
cercano con occhi sbarrati
oramai fuori dalle orbite
un miraggio che non affiora
È il declino della speranza
che affoga nell’oscurità di un cuore
che non sa più battere
al ritmo dell’amore