di Giuseppe Casciaro (dal sito "Coriglianesi nel mondo")
Fuori, una leggera pioggia bagna la strada, deve far freddo perché dalla finestra vedo gli uomini passare coperti da mantelli e le donne s’avvolgono le teste con pesanti fazzoletti tenendosi con una mano i due lembi stretti sotto il collo; l’acqua che cade da quelle nuvole gonfie e scure s’infrange, anche se con delicatezza, sui muri e sui vetri delle finestre,
sulle macchine parcheggiate che in questo periodo sono numerose (a causa dei numerosi emigranti tornati dalla Germania) e sulle bombole di gas che mio padre, dopo averle prese con il motocarro dal deposito sulla strada i ra Jacina, ha sistemato davanti alla putjghella, visto che oggi è la vigilia di Natale e papà, per esperienza, sa che quando arriva questa data quasi tutti i suoi clienti, anche senza averne realmente bisogno, si affretteranno a contattarlo, chi di persona, chi per telefono, al 41400, per chiedergli di portarne una nella loro casa, considerato che oggi è giovedì, la Vigilia, e i negozi chiudono presto e poi verrà venerdì, Natale, e poi ancora sabato, Santo Stefano: giorni in cui i negozi, anche i rivenditori di bombole di gas, restano chiusi. E trascorrere le Feste con la bombola che smette di dare la fiamma alla cucina (o alla stufa) mentre stai preparando cipullizzi e vruocculi non è auspicabile. Questo poi è un anno particolare, perché dopo Santo Stefano sarà domenica e papà non porterà bombole a nessuno. Probabilmente, se qualcuno verrà a prendersela e se lui è in casa magari gliela vende, pur essendo il negozio chiuso. Ma sono sicuro che farà storie se questo dovesse verificarsi, perché i giorni di festa sono giorni di festa e chi lavora non vuole essere disturbato nel suo riposo. Così almeno mi sembra di avergli sentito dire una volta.
Fuori, intanto, il vento ha preso il posto della pioggia, i panni stesi cominciano a svolazzare, le fronde degli alberi ad agitarsi. Le mamme per strada richiamano urlando i loro figli, gli asini ragliano, i clacson delle macchine suonano a rimarcare la fragile impazienza degli uomini. Questo è il primo anno che so che viene Natale, forse perché a scuola il maestro Berardi - dopo averci faticosamente insegnato a leggere e a scrivere - ha chiesto a tutti gli alunni della terza elementare i ri monachelli, a me e ai miei compagni di classe, insomma, di farci comprare, ciascuno dalla propria mamma, una letterina di Natale, che poi in classe l’avremmo riempita, ciascuno secondo le proprie capacità, indirizzandola al proprio padre. Perché, diceva lui, Natale è la festa del padre e del figlio e i figli a Natale devono ringraziare i loro padri per averli messi al mondo e promettergli di essere sempre buoni. Fino al prossimo Natale. Mammà, dopo averle riferito la richiesta del maestro, mi disse di andare al negozio di Cardamone, all’Acquanova, e di sceglierne una, la più bella. Mi diede cento lire e si raccomandò: non li perdere e portami il resto. Presi i soldi e li misi nella tasca destra dei pantaloncini, senza ritirare la mano, per un paio di motivi: faceva freddo (e per questo misi pure l’altra mano nell’altra tasca) e poi perché avevo paura di perderli veramente. C’è sempre una possibilità di perdere i soldi, pensai. Così strinsi forte le mani nelle tasche dei pantaloni (anche dove non c’erano le cento lire) e andai all’Acquanova. “Ej’accatteri una letterina di Natale”, dissi a Tonino. Lui mi indicò un ripiano dove le aveva sistemate e cominciai a guardarle. Erano tutte belle, ma una in particolare mi attrasse: per un bellissimo angelo (che ricordavo spesso nelle preghiere prima di addormentarmi, “Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina e custodisci, reggi e governa me, che ti fui affidato dalla pietà celeste, amen”) e per quella polverina dorata che disegnava una scia di luminosissime stelle. Costava centoventi lire ma io ne avevo solo cento. E non volevo tornare da mammà per dirle che servivano altre venti lire. Così dissi a Tonino: “Questa mi piace ma ho solo cento lire”. Tonino, che conosceva mio padre, fece un mezzo sorriso e mi disse: “Prendila, va bene, te la do per cento lire”. Avevo una bellissima letterina ma avevo speso tutti i soldi e mammà aspettava il resto. Tornato a casa, un poco preoccupato per avere speso tutti i soldi, raccontai a mammà la mia scelta per giustificare l’assenza del resto. Lei non fece una piega, e disse: “Gioia i ra mamma, hai fatto bene, è una letterina bellissima, le vale tutte le cento lire”. In casa sono da solo, anzi, a dire la verità ci sono anche i miei nonni, che abitano con noi da quando conservo i ricordi. Non sono molto vecchi, penso che abbiano circa settant’anni, anche se non ne sono certo, visto che non festeggiano i loro compleanni, ma una volta ho sentito dire da papà che il nonno era nato nel ’98 e la nonna aveva uno o due anni più del nonno, ma neanche lui ne era sicuro. Così, visto che a scuola avevo anche imparato a fare un po’ di conti (anche se sulle doppie cifre non avevo ancora sicurezza) arrivai alla conclusione che più o meno la loro età era quella che ho appena scritto. Il metodo che ho seguito per arrivare alla determinazione dell’età dei miei nonni è semplice. Non riesco ancora a fare le sottrazioni a quattro cifre così ho arrotondato il ’98 (1898) allo ’00 (1900) e da lì fare il calcolo è stato abbastanza semplice. Da 0 a 68 (l’anno in cui siamo, il 1968) ci vogliono 68 anni, così mio nonno ha 68 anni più i 2 che restano dell’altro secolo. Quindi ha settant’anni e mia nonna che ne ha un paio di più, 72. Non ne sono sicurissimo ma non ha importanza.
Pur essendoci i nonni in casa è come fossi da solo. Non sono molto vecchi (ho sentito dire che si è veramente vecchi dopo gli ottant’anni) i miei nonni, il papà e la mamma di mio padre, ma non stanno molto bene. Mio nonno ha sempre la tosse e mia nonna tutti i giorni combatte con una mano che deve darle molto fastidio e provocarle tanto dolore, visto che la tiene sempre fasciata e prima di fasciarla la unge di creme che prende da un vasetto che tiene nella credenza, vicino ai piatti e ai bicchieri. Così, mentre loro sono seduti con i piedi poggiati sopra u vrascierj, io, su un’altra sedia leggo un capitolo del libro “Cuore” che mammà mi aveva comprato su indicazione del maestro Berardi. In una culletta, Francesco, mio fratello, gioca con un imbuto di latta, lo gira e lo rigira, vi guarda attraverso, lo scruta, ne mette in bocca la parte stretta, poi se lo avvicina agli occhi. Per vedere se i suoi occhi possono vedere altro. “Lassa steri stu mmuti”, lo ammonisce mia nonna, “ti può feri meli”. Francesco non ne vuole sapere così mi avvicino e comincio a giocare con lui. Metto in bocca la parte stretta e comincio a strillare, anzi, a parlare a voce alta perché non so strillare: “Domani è Natale, a ru mmercheti i ru fuossi Bianchi v’aspetta u pisci i ra Marina, alici e grastatielli, sarde, cefali e calamari”. Non so perché, ma la mia voce, forse perché deformata dall’imbuto, fa sorridere mio fratello. Dopo un po’ mammà sale i gradini che separano la casa dal negozio e comincia ad armeggiare in cucina. Riconosco il rumore delle pentole, degli sportelli aperti e chiusi, del fiammifero che accende la fiammella della cucina. “Mà, chi sta facienni?”, le chiedo. “Oggi è la Vigilia, e dobbiamo preparare cose buone da mangiare”, risponde mammà. Non avevo molta fame – non mangiavo molto - ma il fatto che mammà si impegnasse in cucina come non faceva tutti i giorni mi incuriosì. E cominciai a pensare ai piatti che avrebbe preparato, senza però riuscire a visualizzarli, visto che di solito mangiavo un po’ di pasta con il sugo e una fettina di carne i’ntra frissurella. La mia conoscenza delle pietanze si ferma lì. Anzi, le patatine fritte, quelle sì che mi piacciono tanto, mia madre me le fa spesso, e quando piove mammà mi permette di mangiarle fuori dalla porta, intr’u lastrachielli: mi siedo e coperto da una bella manta robusta, protetto dal solaio di un balcone, guardo ogni goccia di pioggia che si posa vicino ai miei piedi senza bagnarli, nei vasi dei gerani e sulle pietre che lastricano la strada. Intanto, visto che non so cosa fare, vado a vedere, perun ultimo controllo, la letterina che ho scritto a scuola e che stasera devo consegnare al mio papà, la mia prima letterina. “Vedrai – mi disse mammà – papà ti farà un regalo”. “Che regalo?”, chiesi. “Ti darà un po’ di soldi così ti potrai comprare quello che vorrai”, rispose. Avrei dovuto essere contento ma in realtà non m’importava molto di quei soldi perché non avevo cose da comprare, ogni volta che avevo bisogno di qualcosa – un paio di pantaloni o un maglioncino, un camion di plastica o una penna nuova - mammà me la comprava. O forse no, un desiderio lo avevo. Presi in mano la letterina che avevo conservato in un quaderno e la rilessi: “Caro papà, questa è la mia prima letterina di Natale, voglio dirti che ti voglio tanto bene e che non farò più i capricci e ti prometto di essere buono da adesso in poi perché so che tu, se io faccio così, mi vorrai più bene. E voglio dirti che voglio bene anche a mammà e ai nonni, ma a te voglio più bene perché sei mio padre. E ora ti auguro buon Natale, e buon Natale anche a mammà e ai nonni, e a tutti i nostri parenti e alle persone che abitano a Corigliano. Ma anche alle persone che stanno fuori, perché Natale è la festa di tutti”. Ero soddisfatto, la grafia era bella, le vocali rotonde come ci aveva insegnato il maestro, le consonanti avevano i gancetti al posto giusto e la penna non aveva lasciato macchie sul foglio. Il maestro ci aveva detto che la letterina poteva essere indirizzata anche a Gesù bambino, ma io scelsi di rivolgermi direttamente a mio padre. Fuori comincia a fare scuro, le luci dei lampioni, come ogni sera, si accendono. E come ogni sera, mi chiedo dov’è la persona che tocca l’interruttore per accenderle. Dopo un po’ in casa arriva anche papà. “Chi jurneta, trenta bombole ho venduto, e pure a ra putiga… Abbiamo finito il Rosso Antico e i panettoni, pure lo spumante Gancia… ne è rimasta solo una bottiglia, anzi, eccola, l’ho portata e stasera la apriamo”. Non sapevo cosa fosse lo spumante ma avevo capito che gli affari di papà erano andati bene. Ed ero felice, perché se va bene al padre, quando si è bambini, va bene anche ai suoi figli, pensavo. Mammà accese le luci dell’albero, un alberello di plastica che era alto quanto me, dove erano appese una ventina di palle colorate e dei fili argentati che davano a tutta la casa un’aria di festa che apprezzavo per la prima volta. Sulla macchina da cucire mammà aveva anche messo una piccola capanna con un asinello e un bue, e Giuseppe e Maria. “Mamma, ma il bambino Gesù quando lo metti?”, le chiesi. “Stasera, dopo la mezzanotte”, rispose. Ci sedemmo a tavola, pure Francesco si sedette, di solito non aveva un posto suo ma visto che era Natale mammà decise che era venuto il momento di dare anche a lui una sedia. Io, intanto, prima che papà si sedesse, seguendo le indicazioni di mammà avevo messo la letterina sotto il suo piatto, ben nascosta, perché doveva essere letta solo quando avevamo finito di mangiare. Pur non essendoci la solita pasta al sugo e la solita fettina di carne, mangiai quasi tutto quello che c’era. Scansai solo il pesce, perché un giorno, dopo avere mangiato del baccalà o le alici arriganate non ricordo bene, sentii la gola bruciare e avvertii prurito sotto il mento. Lo dissi a mammà che lo riferì a un medico il quale le consigliò di non farmelo più mangiare in quanto potevo essere allergico. I miei nonni mangiarono tutto quello che mammà aveva messo nei loro piatti, pure papà e mammà quella sera mangiarono più del solito. Francesco si divertì toccando tutto con le mani ma non mangiò quasi nulla. Arriva il momento della letterina e mammà dice a mio padre di togliere il piatto perché non c’era altro da mangiare ma mio padre fa finta di niente e poggia le mani sul piatto. Io sorrido. Mammà sorride, i nonni pure. “Cà, caccia stu piatti”, lo ammonisce mia madre. Papà mi guarda e solleva il piatto. “Oh, ma c’è una lettera…”, disse. “Sì, te l’ha scritta tuo figlio”, risponde mammà, “è la letterina di Natale”. Era la prima volta, per lui e per me. Papà apre la busta, prende la letterina, un po’ di polverina dorata si posa sulla tovaglia. La scia delle luminose stelle sembra regalare al suo volto una luce particolare. Vedo l’angelo, mi tornano in mente tutte le parole che avevo scritto e mentre papà le legge le pronuncio in silenzio. Papà a un certo punto si ferma… “Giusè, mi fa cianciri”, dice con gli occhi lucidi. Mammà invece piange proprio e si pulisce le lacrime con il tovagliolo che era anche un poco sporco di sugo. Neanche i nonni si trattengono. Gli occhi di papà si sofffermano su una frase, ‘ma a te voglio più bene perché sei mio padre’, del resto non gliene importava nulla. Suo figlio gli aveva detto per la prima volta che gli voleva bene, anche se solo per iscritto. Ma questo gli bastava. Ficca la mano in una tasca e tira fuori un biglietto da mille lire. “Chi pirucchiusi”, le dice mammà, “dagli qualcosa di più”. Papà sorride e prende anche un biglietto da cinquemila lire. Uno più cinque faceva seimila lire, questa addizione era facile. E io sono felice. Di voler bene al mio papà e di avere seimila lire per comprare una pista elettrica con le macchinine, il mio desiderio, che però costava all’incirca diecimila lire. Dopo, quando ci alzammo dal tavolo, dissi a mammà della mia intenzione e le posi la questione delle quattromila lire mancanti. “Non ti preoccupare gioia i ra mamma”, disse mammà; tra un po’ viene la Befana, mammà ti dà le quattromila lire che mancano e tu ti puoi comprare la più bella pista elettrica che esiste”. Rinfrancato, mi preparai per andare a dormire, visto che il giorno dopo dovevamo andare tutti alla messa di Natale e dovevamo svegliarci presto. Mammà non sparecchiò la tavola, lasciando tutti gli avanzi. Prima di andare a letto mi affacciai sul terrazzino. Faceva freddo ma il vento si era calmato, i panni non svolazzavano più, le fronde degli alberi avevano smesso di agitarsi. Le mamme non richiamavano più i loro figli, sicuramente li stavano accarezzando e mettendoli a letto riempiendoli di baci, gli asini erano calmi nelle loro stalle, i clacson delle macchine non avevano più motivo di suonare perché improvvisamente gli uomini, per un poco, erano diventati pazienti.
Già, era Natale.