Le mie vicissitudini pre-matrimonio, sotto certi aspetti, ripetono la sofferta vicenda manzoniana di Renzo e Lucia.   Ma lì si partiva da un matrimonio, contrastato da un tirannello, don Rodrigo mentre, nel mio caso, si trattava di un "TIRANNO", Ceausescu, quindi le traversie erano, in proporzione, più vessatorie.

Direte: "Però, la peste, quella bubbonica, vivaddio, non c'era!" E vi pare niente l'atmosfera da "Peste Comunista" in una città ungherese, ORADEA,   nella TRANSILVANIA, regione che Stalin aveva tolto all’Ungheria e regalata alla Romania. Il matrimonio con stranieri era soggetto all’approvazione del CONSIGLIO DI STATO, che dava il benestare, o meno, emanando un DECRETO. Cioè il mio matrimonio diventò Affare di Stato. E non vi dico le paure, e i  batticuori, e il "rigar dritto, se no...", ed il terrore di non poter coronare un sogno che, di norma, è roseo. E dover sorridere ad ogni avido e stupido poliziotto. E dover portare in continuazione regali e regalini a quei funzionari sempre più avidi. E dover declinare, con garbo, la richiesta di far pubblicare, da un qualche editore Italiano, o da un quotidiano a grande tiratura, un ponderoso pamphlet che decantava le conquiste del regime comunista nella Romania del "CONDUCATOR" che, letteralmente, vuol dire DUCE. Sì, Duce, e non storcete il muso, era questo l'appellativo con cui si compiaceva di farsi chiamare, in quel regime comunista, il "Grande Capo". La mia "promessa sposa" lavorava, come indossatrice, alla "CASA DE MODA", nelle sfilate di moda che, di solito, si allestivano per gli acquirenti stranieri, per lo più tedeschi, invogliati dai bassi costi di produzione, ma non crediate che percepisse i "cachet" di Naomi. Sfilava, questo sì, ma gratis, ed aveva, comunque, l'obbligo di svolgere il lavoro, come tutte le altre, nei reparti Taglio, Cucito e Tricotaje e, come premio, ogni volta, un…brindisi con spumante a fine sfilata ed il ringraziamento delle gerarchie per il contributo che aveva dato al successo della manifestazione. Quando, finalmente, ricevette il DECRETO che dava il consenso a sposarsi, fu chiamata dal direttore della Casa, il dottor Sferle, peraltro rispettabile figura di ungherese colto, che le fece questo discorsetto: "Senta  Gyöngyi, so che ci vuol lasciare perché intende sposare uno straniero. Ora io che, peraltro, so anche quel che vale, ho l'obbligo di riferirle l'offerta che le viene proposta dall'Alto. Se rinuncia a trasferirsi all'estero, l'Amministrazione è disposta, subito, ad esonerarla dal lavoro di routine e a destinarla al reparto Creazioni (CREATIE), che, come lei ben sa, è un lavoro di tutto riposo, con il piacevole obbligo, s'intende, anche delle sfilate. Inoltre, avrà un adeguato aumento di stipendio e, cosa da non sottovalutare, le verrà assegnato, in una zona residenziale molto esclusiva della città, un appartamento adeguato al suo nuovo censo sociale. Questo, capirà, ero obbligato a dirle. E gliel'ho detto". La risposta di Gyöngyi fu immediata e molto franca: "io la ringrazio, ma quando c'è di mezzo l'amore, non c'è nulla che può farmi cambiare scelta". E Sferle: “Lo immaginavo. Non    mi resta che farle di tutto cuore i miei migliori auguri". E finalmente, in attesa delle formalità finali (passaporto e liberatorie varie), pensammo al matrimonio, sia quello civile che quello religioso. Escludendo il mio rito, quello greco-cattolico che, nella Romania comunista, era stato dichiarato fuorilegge, ed escludendo il rito protestante di Gyöngyi, optammo per il   rito cattolico che, più che consentito, si può dire che era "tollerato" dal regime comunista, le cui attenzioni erano riservate solo alla "remissiva" Chiesa Ortodossa. E venne il momento di conoscere Ferenc Matos, figura ieratica di parroco della monumentale cattedrale Romano-Cattolica, che programmò il prescritto corso prematrimoniale che lui, intelligentemente, trasformò in biografia delle sue commoventi vicissitudini personali. Le "lezioni" si tenevano nelle due stanze che il regime gli aveva assegnato, dell'imponente fabbricato, a suo tempo, alloggio dei seminaristi, enorme, con la curiosa caratteristica che il portico che coronava il fabbricato, era, ancora, pavimentato con morbide doghe di legno che, allora, dovevano attutire i rumori degli scarponi dei passanti che avrebbero disturbato la mistica quiete dei giovani seminaristi. Il resto era indecentemente utilizzato da organi di partito. Il corso, dunque, si teneva in quella che doveva essere la "Canonica", nella grande stanza che fungeva da studio e soggiorno. Dopo i primi semplici convenevoli, accese un vecchio modello di stereo per creare un sottofondo musicale, così ci disse, sottovoce, che confondesse le immancabili intercettazioni che la polizia segreta, come al solito, cercava di sfruttare, disseminando, nei punti più sensibili, le famigerate cimici. E tra una lezione e l'altra, ci raccontò le vicissitudini del suo avventuroso passato, sin da quando, giovane prete, subì l'impatto col nuovo assetto politico che, apertamente, non sopportava la chiesa cattolica, ritenuta la "longa manus" del Vaticano asservito al “pericoloso imperialismo americano". Per meglio capirci, e per comprendere quel clima, erano i tempi in cui, a Budapest, si processava e si condannava il Cardinale Mindszenty con la puerile, incredibile, solita, accusa di collusione con i nazisti. E ad Oradea era questa l'atmosfera. Il vescovo, venuto a conoscenza che funzionari  del regime comunista si recavano in tutte le parrocchie per   far firmare ai parroci intimoriti un documento in cui si dichiaravano "completamente disposti ad una incondizionata ubbidienza agli organi statali, nello svolgimento dell'esercizio pastorale", il vescovo cercò subito di correre ai ripari mettendo in guardia tutti i sacerdoti della sua Diocesi e, avvertendoli,  che la giusta versione da firmare era: "In quanto cittadini rumeni confermiamo pieno ed incondizionato rispetto ed ubbidienza alle leggi dello Stato, senza porre alcuna riserva ma, in quanto ministri del culto, dichiariamo che, per quanto concerne la cura delle anime, ubbidiamo, unicamente, alle ispirate disposizioni del nostro vescovo e, implicitamente, alle disposizioni delle gerarchie ecclesiastiche fino al Papa. Il compito di mettere in allerta tutti i sacerdoti della vastissima Diocesi fu affidato al giovane prete Ferenc Matos, ritenuto uno dei più coraggiosi e disinvolti, che fu incaricato di precedere i funzionari del regime che stavano  per incastrare l'attività della chiesa cattolica, riducendola ad una pura e semplice emanazione delle tante organizzazioni propagandistiche a servizio del partito comunista. E lui, con ogni mezzo, in bicicletta, a cavallo o a piedi, si fece il giro di tutte le parrocchie suggerendo la risposta che bisognava dare. E vinse la battaglia contro il tempo. Quando i funzionari si videro sfuggire quella ghiotta possibilità di asservire la chiesa cattolica alla mercè del regime, sentendosi sempre recitare la stessa intelligente clausola, andarono in bestia e cercarono l'autore del loro mortificante insuccesso. E non ci volle molto ad individuarlo in Ferenc Matos. Ciò che seguì è intuibile, ma bisognava sentirlo da lui raccontato, per viverne il pathos. Fu rapidamente "processato" e condannato al più duro dei gulag della Romania, sul delta del Danubio, negli acquitrini della palude infestata di sanguisughe che risalivano fino all'inguine, e di malaria perniciosa. A sentirlo ricordare quei tempi stentavi a capire Il suo "rimpianto" per ciò che aveva passato, perché, a suo dire, fu il momento più bello della sua vita di sacerdote, per aver condiviso con migliaia di altri infelici, quelle sofferenze che, altrimenti, non avrebbe mai, nemmeno immaginato, e di aver potuto dare conforto ai    suoi fratelli di sventura con la sola forza d'animo che la fede gli metteva a disposizione. In poche parole si sentì veramente realizzato come pastore di anime. "Sapeste la consolazione che provavo nel confortare un altro infelice che mi moriva tra le braccia ringraziandomi per quel "nulla" che gli davo". E di questo, paradossalmente, riconosceva un "merito" al suo aguzzino: il feroce regime comunista che l'aveva aiutato a realizzare la sua tempra di uomo di fede. Quest'uomo, questo sacerdote, questo ministro di Dio, io e la mia famiglia, l'abbiamo adottato come guida morale, finché fu in vita, e ci siamo onorati, dopo averlo avuto artefice del nostro legame uxorio, di fargli celebrare il  battesimo della prima figlia, ed ancora oggi, ricordando il suo esempio, non possiamo astenerci dal commuoverci al pensiero di cosa può offrire la fede, quando si è ricchi di tanta nobile esperienza e sofferenza.

Ernesto SCURA

 

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