Fonte: www.linguisticamente.org
di Emanuela Piemontese Università Sapienza di Roma
Don Milani, chi era costui?
Giorgio Pecorini intitola così un suo volume del 1996. Si tratta, tra i moltissimi scritti su don Milani, di un testo fondamentale perché Pecorini era un giornalista che è stato a lungo molto vicino a don Lorenzo Milani.
Quest’anno, esattamente il 27 maggio, ricorre il centenario della nascita e il 26 giugno il cinquantaseiesimo anno dalla morte di don Lorenzo Milani. In queste poche pagine cercheremo di rispondere essenzialmente a due domande: chi era don Milani e perché, ancora oggi, ci interessa la sua opera, della quale si parla ininterrottamente, da fronti opposti e con giudizi anche notevolmente divergenti, per non dire polarizzati? Lorenzo Milani (1923-1967) apparteneva a una colta famiglia della buona borghesia fiorentina dell’inizio del secolo scorso. Bastano poche notizie sulla sua provenienza familiare per rendere conto della sua formazione culturale. Era il secondo di tre figli di Albano Milani Comparetti e di Alice Weiss. Il padre era laureato in chimica, ma si occupava della gestione del patrimonio familiare. La madre era una donna molto colta, laica e apparteneva all’alta borghesia ebraica triestina. Parlava correntemente varie lingue, tra cui l’inglese che aveva imparato prendendo lezioni da James Joyce durante i suoi soggiorni a Trieste. Uno dei bisnonni era il filologo classico e papirologo Domenico Comparetti, amico strettissimo del grande filologo Giorgio Pasquali, a cui anche il giovane Lorenzo era molto legato. II nonno paterno era Luigi Adriano Milani,
numismatico, filologo e museologo. Dopo il trasferimento a Milano della sua famiglia, Lorenzo Milani fece i suoi studi tra Firenze e Milano. Prese la maturità classica al liceo Berchet di Milano dove poi frequentò per un anno il corso di pittura all’Accademia di Brera. Nel 1942 la famiglia Milani tornò a Firenze e Lorenzo, nonostante l’agnosticismo della sua famiglia, nel 1943 decise di entrare in seminario, sorprendendo tutti e, in particolare, la madre ebrea ma fieramente laica. Ordinato sacerdote nel 1947, il giovane don Lorenzo Milani fu mandato a San Donato di Calenzano (Firenze) come aiuto cappellano dell’anziano provosto, don Luigi Pugi. Poco dopo il suo arrivo, fondò per i giovani operai e contadini del posto una Scuola popolare dalla quale ricavò molte soddisfazioni, ma anche non poche incomprensioni e amarezze soprattutto dai benpensanti e da molti confratelli privi di spirito libero e totalmente acritici nei confronti delle direttive delle gerarchie ecclesiastiche. Dopo varie e spiacevoli vicende, morto il provosto, don Milani fu nominato priore di Barbiana, una parrocchia sulla montagna mugellese di cui era stata decisa la soppressione. Arrivato a Barbiana, dove rimase fino alla morte avvenuta nel 1967, fondò anche lì una scuola, la Scuola di Barbiana, per i ragazzi che non avevano la licenza media. Negli anni trascorsi tra San Donato e Barbiana (1947-1967) don Milani si scontrò con la locale realtà sociale, culturale e umana, lontanissima da quella da cui lui proveniva. Lo colpiva l’enorme povertà logico-linguistica dei suoi fedeli, soprattutto dei giovani, vittime di svantaggi socio-culturali di vario tipo, dall’esclusione sociale e dalla povertà culturale allo sfruttamento sul lavoro e alla loro passività totale di fronte al conformismo e al nascente consumismo. Per capire come rompere il muro che lo separava dal suo popolo, iniziò ad annotare, giorno dopo giorno, dati sui livelli di istruzione, sui comportamenti contraddittori dei suoi fedeli, sulle abitudini degli adulti e dei ragazzi, sulle loro scelte politiche e sulle loro incoerenze varie. Da questi appunti raccolti in quasi dieci anni, pubblicò, nel maggio del 1958 il volume Esperienze pastorali (Milani, 1958), ricco di puntuali dati – elaborati accuratamente con metodi statistici artigianali – e di riflessioni sulle cause, sulle conseguenze e sui rimedi a quelle forme di povertà che lui considerava più gravi di quella economica perché lesive della dignità umana. Le sue riflessioni diedero origine a quello che diventerà non solo il suo metodo abituale di lavoro, ma anche l’obiettivo della sua attività: combattere la deprivazione logico-linguistica e la povertà umana e culturale che caratterizzava i suoi ragazzi e restituire loro la dignità sotterrata sotto la coltre di anni di sopraffazioni, rassegnazione e mutismo. A questo riguardo c’è una lunga lettera che spiega perché per lui era inaccettabile la condizione non solo di inferiorità, ma di inferiorità inconsapevole del suo popolo. Si tratta della lettera del 30 marzo 1956 (Milani, 1970), per altro mai terminata, al magistrato Gianpaolo Meucci, padre del diritto minorile in Italia. Le sue riflessioni critiche non risparmiarono neppure i confratelli che per attirare e “intrattenere” i giovani e i ragazzi ricorrevano a mezzi esclusivamente ludici (calcetto, biliardino, bar parrocchiale ecc.). Per don Milani questo modo di stare accanto ai giovani significava “bestemmiare contro il tempo”, cioè sprecarlo in attività futili e non educative che aiutavano lo sviluppo della persona umana. Invece di contrastare lo stato di inferiorità sociale dei loro giovani, con proposte più impegnative e socialmente utili, don Milani esclamav
Noi, i possessori dell’Acqua che disseta per l’Eternità, a vender gazzose nel bar parrocchiale, solo perché il mondo usa dissetarsi con quelle! (Milani, 1958: 244).
Le sue critiche esplicite alle modalità dei suoi confratelli di rapportarsi ai giovani e alle autorità ecclesiastiche non passarono inosservate e senza conseguenze. Infatti il Sant’Uffizio fece ritirare dal commercio Esperienze pastorali non perché il contenuto contrastasse con l’ortodossia cattolica, ma perché ritenuto “inopportuno”. Inopportuno perché e per chi? Per capire questo giudizio non di merito sulla fede e sull’ortodossia di don Milani, ma sulla opportunità di dire certe cose è necessario conoscere il complesso contesto storico-politico di quel periodo e anche le posizioni ufficiali della Chiesa preconciliare, molto accomodante, per così dire accondiscendente con il Potere politico costituito di quegli anni. In sintesi erano gli anni post-bellici e della dura contrapposizione tra gli strati sociali polarizzati nei diversi partiti politici: da una parte i cattolici che aderivano prevalentemente alla Democrazia cristiana, dall’altra i socialisti e i comunisti che, invece, votavano PCI e altri partiti di sinistra. Erano gli anni della guerra fredda che ha visto a lungo la netta e interminabile contrapposizione tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica, con le note conseguenze fino ai nostri giorni.
Perché parlare ancora di Don Milani?
Ci interessa parlare in questa sede di don Milani per due motivi precisi. Tra i rimedi principali individuati e messi in atto don Milani per fronteggiare (inizialmente) le sue difficoltà di “evangelizzazione” ce ne sono due che ci riguardano tutti da vicino. Il primo è la sua convinzione del ruolo fondamentale della scuola per lo sviluppo linguistico e culturale dell’individuo e della società. Il secondo è la sua determinazione nel fare dell’insegnamento della lingua la via privilegiata per garantire la padronanza della lingua e delle lingue e restituire ai suoi ragazzi dignità umana e civile. Nei numerosi elenchi di frasi celebri, facilmente reperibili sul web, molte sono tratte dagli scritti di don Lorenzo Milani e della Scuola di Barbiana proprio su questi due punti, la scuola e la lingua. La frase da noi scelta come titolo di queste poche considerazioni è tratta infatti da una lettera di don Milani del 28 marzo 1956, inviata al direttore del “Giornale del Mattino” di Firenze, mai pubblicata. Lo stesso concetto ricorre frequentemente in Esperienze pastorali (1958). Si tratta, a nostro parere, dell’opera più illuminante e significativa della figura di don Milani che, diventato prete per vocazione, si fece maestro per necessità. In realtà don Milani diventò maestro appena arrivato a San Donato di Calenzano. Come abbiamo già detto, svolgendo la sua missione sacerdotale, si rese conto di una realtà per lui nuova e individuò la causa della sua difficoltà di capire e farsi capire dai suoi fedeli nella loro totale carenza di capacità linguistiche e logiche. Da qui la scelta di creare una scuola popolare per giovani operai e contadini poco istruiti. È interessante notare che non molto diversa fu la scelta di un grande filosofo, matematico e logico austriaco: Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Anche Wittgenstein, qualche decennio prima, tra il 1920 e il 1926, decise di fare il maestro a bambini di scuola elementare. Tornato provato, anzi sconvolto dall’esperienza di guerra e di prigionia a Cassino, già trentenne, si iscrisse nel 1919 al quarto anno di formazione per insegnanti, conseguendo il diploma nel luglio del 1920. Dopo un breve periodo di volontariato, come aiuto giardiniere in un convento agostiniano, nel settembre dello stesso anno, fu assunto e fece il maestro presso varie scuole elementari sulle montagne della Bassa Austria. Proprio durante quell’esperienza pubblicò, oltre al Tractatus logico-philosophicus nel 1922, anche un Dizionario per le scuole elementari (di circa 2.500 vocaboli) nel 1926. Il volume fu tradotto, commentato e pubblicato anche in Italia da Dario Antiseri nel 1978. Il Dizionario di Wittgenstein, come d’altra parte le Esperienze pastorali di don Milani, non fu mai adeguatamente considerato dalla critica, nonostante la sua importanza nella storia dell’evoluzione del pensiero filosofico wittgensteiniano verso quello che poi sarebbe stato definito il “secondo Wittgenstein”. In altre parole, Wittgenstein, grazie al contatto diretto con i suoi alunni, passò pian piano dall’idea di un linguaggio ideale a quella del linguaggio reale. Non a caso, nella lunga introduzione al Dizionario, Dario Antiseri stabilisce una specie di parallelismo tra l’interesse per la scuola e per lingua di don Milani e quello di Wittgenstein. Ma al di là della scelta simile, c’è una profonda differenza tra i due. Si tratta della differenza degli obiettivi del loro insegnamento. In entrambi la spinta partì dalla stessa esigenza di insegnare la lingua, una volta constatata la sostanziale povertà linguistico-espressiva dei loro alunni che mirava a trovare il modo di comunicare efficacemente con loro e renderli più padroni della loro lingua. Rispetto a quello di don Milani, l’obiettivo di Wittgenstein sembrerebbe più circoscritto, ma da non sottovalutare: allargare la ristrettissima conoscenza e padronanza lessicale dei suoi alunni, migliorando anche la loro capacità ortografica. Per don Milani, invece, partito pure lui dalla necessità di “dare la parola” ai suoi allievi, l’obiettivo diventò sempre più ampio e totalizzante: portare i suoi ragazzi a condividere il suo “codice”, per intendere e farsi intendere, significava anche imparare a guardare oltre sé stessi e la stessa lingua. Significava avere, grazie al possesso della lingua, maggiore consapevolezza della propria e altrui dignità umana e sociale. Nel fare questo, don Milani non sentiva affatto di tradire la sua missione sacerdotale, ma anzi di darle pienezza, secondo la volontà divina. Infatti, in Esperienze pastorali scriveva:
Dio non mi chiederà ragione del numero dei salvati nel mio popolo, ma del numero degli evangelizzati. Mi ha affidato un Libro, una Parola, mi ha mandato a predicare e io non me la sento di dirgli che ho predicato quando so con certezza che per ora (…) ho lanciato solo parole indecifrabili contro muri impenetrabili, parole di cui sapevo che non sarebbero arrivate e che non potevano arrivare. (…) Dopo queste premesse, mi pare di poter dire che la scuola, in questo popolo e in questo momento, non è uno dei tanti mezzi possibili, ma mezzo necessario e passaggio obbligato né più né meno di quel che non sia la parola per i missionari dell’Istituto Gualandi o la lingua per i missionari in Cina. (…) Ciò che mancava era addirittura la lingua degna di un uomo. Mancava la lingua, ma soprattutto gli interessi degni di un uomo. (…) Perciò per me la scuola mi è sacra come un ottavo Comandamento” (Milani, 1958: 201-204).
Per don Milani la scuola diventa l’unica via per garantire a tutti il possesso e il dominio sulla parola, sulla lingua, ma una volta raggiunto questo obiettivo il fine ultimo era un altro. I ragazzi dovevano, con l’arte della parola, sapersi orientare e muovere nel mondo. Dovevano imparare le lingue straniere per confrontarsi col resto dei loro fratelli sparsi nei diversi continenti, saper discutere e far valere le proprie ragioni sul lavoro e nella società e impegnarsi nei sindacati e in politica. Questo obiettivo traeva ispirazione dai principi fondamentali della nostra Costituzione, che richiedono tuttora l’impegno di tutti perché i diritti siano oltre che garantiti anche rispettati affinché tutti i cittadini possano partecipare consapevolmente e pienamente alla vita sociale, politica e culturale del Paese.