Io, già di mio, ”precisino” e ”perfezionista” qual ero e qual sono, impiegai ben 49 anni per portare a conclusione la scelta di quella che sarebbe, poi, felicemente, diventata mia moglie.

Visto che di tempo ne avevo perso già tanto, cercai di snellire gli adempimenti, almeno per quanto riguarda quelli italiani, ma non avevo fatti i conti col regime comunista, essendo, l’aspirante sposa, cittadina rumena con l’aggravante della nazionalità ungherese, che complicava la pur già aggrovigliata matassa. Si sa che, ritualmente, in omaggio ad una consolidata, più che millenaria consuetudine, si chiede la “mano” della sposa al genitore. E figuratevi se io non ero pronto a farlo. Rimasi di ghiaccio quando fui informato che, nei paesi comunisti, in caso di matrimonio con stranieri, la mano della sposa andava sì richiesta, ma non al papà, bensì al presidente de Consiglio di Stato che era investito di questo impegno, che lo elevava al rispettabile rango di “papà” di quelle fanciulle da marito. In effetti il ...”padrone”. Cioè un matrimonio, come il mio, diventava un “Affare di Stato”. E chi era il Presidente del Consiglio di Stato? Chi, se non lui, l’ineffabile Nicolae Ceausescu, che assommava anche questo prestigioso incarico a quello di Capo del Governo e di Capo dello Stato. Ed assolse quel “gravoso e delicato impegno” tralasciando magari i più urgenti provvedimenti causati dalla perenne crisi alimentare che angustiava le mense delle massaie rumene, impegnandosi, da buon “pater familias” (non si sa mai in che mani potrebbe finire una sua “suddita”, una volta convolata a nozze) da richiedere un anno esatto, di tempo, per gli opportuni accertamenti. Giusto per farmi ritardare di un anno i 50 anni, limite massimo che, sin da giovane, mi ero prefisso di non oltrepassare, per l’evento. E fu così che mi dovetti sobbarcare ad un lungo anacronistico fidanzamento che mi obbligò ad effettuare, con cadenze quasi quindicinali, viaggi che ,se pur piacevoli, erano a dir poco, oltremodo penalizzanti per il mio lavoro in Italia. Finalmente, un bel giorno, giunse a casa della candidata sposa un plico raccomandato, con abbondanti sbavature di ceralacca. Il mittente era : REPUBLICA SOCIALISTA ROMÂNA - CONSILIUL DE STAT. Volevamo sposarci il giorno dopo. Fu impossibile. Il severo CONSILIUL DE STAT, quando emanava un DECRETO, perchè di decreto si trattava, stilato in doppio originale, doveva trasmetterlo, contemporaneamente, all’interessata, per posta e, tramite corriere, in valigetta “diplomatica”, alla Milizian della sua città, che doveva accertare eventuali manomissioni o alterazioni che potessero invalidare uno dei due documenti. Non per nulla “Affare di Stato” era. L’operazione si chiamava CONFRUNTARE. Avvenuto il CONFRUNTARE tra i due documenti, che sanciva la reciproca conformità e validità legale, si poteva procedere. Ed il Comune, finalmente, veniva autorizzato a celebrare le nozze. Malgrado tutto fu l’esperienza più bella della mia vita, e non solo mia, ma anche della mia fidanzata che, tutte le volte, mi aspettava vegliando fino a tarda notte per gioire che anche quella volta avevo percorso, in macchina, indenne, gli oltre 2000 chilometri. E non mancavo, ogni volta, di recare un bel mazzo di rose rosse, acquistate ad Opicina, la frazione di Trieste, ultimo avamposto di libertà e democrazia, sull’altipiano carsico. Al di là solo incubo. Le preferivo perchè coltivate dallo stesso fioraio, in una modesta serra, a ridosso della frontiera jugoslava, che si mantenevano fresche e, quel che più conta, restavano profumate quasi fino al successivo viaggio e poi era, forse, l’unico genere che non creava problemi doganali alle varie frontiere comuniste che vedevano, in ogni cosa, uno strumento di propaganda capitalista rivolto a minare il sano corso della realizzazione del marxismo-leninismo. E poi, erano...”rosse”. Ma a questo punto, sento il dovere di dare qualche chiarimento geografico sul contesto del mio racconto che, altrimenti, corre il rischio di svilupparsi in paesi e luoghi immaginari o da favola. Per raggiungere Oradea, la città rumena meta dei miei viaggi, che si trova subito a ridosso della frontiera ungherese, bisognava attraversare la vastissima e spettacolare pianura della puszta, la sterminata prateria ungherese che ospita, ancora oggi, grandi allevamenti di cavalli, mandrie di ovini e bovini, e di oche, e allevamenti di selezionati suini destinati a produrre i tipici salami e prosciutti affumicati della tradizione ungherese. La puszta, per chi la percorre in macchina, offre uno spettacolo incantevole per il suo verde che, d’inverno, si copre di una coltre di neve, su cui vedi zampettare uccelli e correre lepri e caprioli e cervi spinti, dalla fame, ad uscire dai boschi circostanti, in cerca del foraggio che il governo fa spandere per la sopravvivenza di questi graziosi animali che costituiscono la fauna protetta. E fu appunto d’inverno che, già sera, pregustavo, finalmente un arrivo a Oradea, in ora decente, visto il vantaggio che avevo accumulato sulla tabella di marcia che mi ero imposta. Quand’ecco, all’improvviso, una enorme lepre attraversa la strada e, abbagliata dai fari, rimane ferma, incapace di effettuare almeno uno dei suoi vigorosi salti, in una paralizzante immobilità che le procura, fatalmente, la morte. Sconvolto dall’insolito caso, scesi dall’auto e la osservai bene. Aveva ricevuto il colpo del paraurti alla fronte, mentre fissava i miei fari che l’avevano come ipnotizzata. Soppesandola, valutai che era una lepre gigante, di almeno 10 Kg. Ero a conoscenza sia delle leggi, molto rigorose, che vigevano in quei paesi, in materia di selvaggina, sia delle grane da dover affrontare alle frontiere in materia di cacciagione, sia in entrata che in uscita, e non solo, ma anche sulle modalità dell’uccisione. Decisi di prendere tempo e, invece di proseguire, mi fermai a pernottare nell’ultimo paesino ungherese Berettyóújfalu, di assai difficile pronuncia, ma di squisita ospitalità e ottimo goulash. Intanto la mia preda si sfrollava abbondantemente nel bagagliaio della macchina. Il mio dilemma era: -Affrontare una vivace discussione sull’export-import di quel prezioso animale, correndo magari il rischio di eventuali arresti; -Arrivare glorioso e trionfante a Oradea col magnifico trofeo che avrebbe rallegrato il cenone di quel capodanno. Quando, l’indomani, lentamente, viaggiavo verso la frontiera, e meditavo sulla scelta, vidi in lontananza un cacciatore, ben riconoscibile dalla tenuta venatoria, ma più che altro per il fucile chiuso nella custodia, non ebbi più dubbi. Mi fermai e gli feci cenno di avvicinarsi. Aprii il portabagagli e gli mostrai quella gigantesca bestia che invitai a soppesare. Quasi fece uno sforzo a sollevarlo afferrandolo per le zampe e non riusciva a contenere la sua meraviglia per l’inusuale trofeo. Poi, quando gli feci capire che gliene facevo dono, gli brillarono gli occhi dalla gioia, e non finiva di ripetere “Kessenem”(grazie).E sulla mensa imbandita di quel mio capodanno, tra le pur gradevoli ghiottonerie, sovrastava, con adeguato decoro, un bel mazzo di rose scarlatte. Di lepre in salmì solo un lieve rimpianto. E sulla mensa dello sconosciuto cacciatore magiaro ,son certo, un sapido e ricco “goulash” di lepre gigante della puszta.

Ernesto SCURA

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