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di Giulio Iudicissa
Siamo tutti e sempre alla ricerca di qualcosa. Penso naturalmente alle cose buone e belle, quelle che rendono la vita più piena e degna. Cerchiamo da ragazzi, continuiamo a cercare da adulti, cerchiamo ancora da anziani e da vecchi, se abbiamo la fortuna di diventarlo. Cerchiamo molto, senza sosta e, a volte, con affanno, ma di rado la ricerca approda a risultato. Il più delle volte, quel qualcosa cercato, un oggetto, un bene, un affetto, resta lontano, irraggiungibile. Perché? Forse, non lo meritiamo? No. Abbiamo solo cercato nel posto sbagliato.
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di Giulio Iudicissa
Certe definizioni andrebbero riviste e corrette, perché forse già macchiate da un peccato di origine. E non tragga in inganno il fatto di ascoltarle in vari contesti o di trovarle nei dizionari. È il caso della definizione di “comunità”. Ecco, basta ritrovarsi nello stesso posto, una scuola, un ufficio, un'associazione, una chiesa, un paese, e ci sentiamo autorizzati a dire che siamo una comunità. Purtroppo, non è così. Possiamo stare nello stesso spazio per lavoro, per diletto, per scelta, per destino, e non per questo essere comunità, se manca il sentimento della comune appartenenza ad una storia, ad una tradizione, ad un credo.
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Il Vangelo di oggi: Lc 6,39,45: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
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Il Vangelo di oggi: Lc 6,27-38: A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male.
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Premessa: ci sono due modi per dire una bugia. Uno è “dire una bugia”, con tutti i risvolti connessi a quest’infamia, l’altro, i cui risvolti sono ancor più subdoli e devastanti è quello di “omettere di dire una verità”.
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di Giulio Iudicissa
Un incontro piacevole con breve conversare. Lei già mia alunna ed ora con famiglia, si lascia andare ad un ricordo, la chiusa di una mia lezione di letteratura greca: siamo come foglie, che l'autunno porta tutte via; ciò che inizia, ha un tramonto e una fine. Prima del saluto, una confidenza: è contenta che anche questo festival, dopo tanto schiamazzo, sia finito. Mi auguro di tutto cuore - le dico - che sia veramente finito. Ho il timore, però, che, calato il sipario, restino, purtroppo, le tante sconcezze, gratuitamente diffuse.
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Il Vangelo di oggi: Lc 6,17.20-26: In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante.
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di Rossella Librandi Tavernise
Nei paesi arbëreshë, cattolici, di rito greco-bizantino, la commemorazione dei defunti cade undici giorni prima delle Ceneri, sempre di sabato e a Febbraio: a Vaccarizzo, nella settimana che precede tale giorno, si svolgono setenat (settenario di preparazione); la campana che chiama i fedeli suona mbëlik e la chiesa è sempre gremita di gente (fino a qualche tempo fa chi era in lutto stretto andava in Chiesa solo in questo periodo e alla processione del Venerdì Santo). Presso l'altare, su un tavolino si dispongono la Croce e tanti lumini che vengono accesi dai fedeli. Al termine della funzione religiosa, che si svolge nel tardo pomeriggio, si canta “a canone”: due gruppi vocali, distanziati, cantano alternativamente, ripetendole, le strofe di una lunga e commovente lirica intitolata «Oj Zot të qosha truar!» (Signore, abbi pietà di me) scritta da Giulio Variboba, prete e poeta di San Giorgio Albanese, vissuto nel 1700. Sentita e commovente, fra le altre, è l'invocazione:
«Jpi rëpoz oi Zot, jpi rëçet,
ti vëdekurit jpi drit tek jetra jet»
«Oh Signore, da' al morto riposo, dagli quiete, dagli luce nell'altra vita.»
Ricordo che quando ero piccola la semioscurità della chiesa, l'aspetto mesto e grave delle donne in abiti di lutto e il canto cantilenante, creavano un'atmosfera quasi irreale che mi angosciava. All'inizio di questa settimana, nelle case di lutto recente, si mette a mollo nell'acqua abbondante grano: si sceglie col chicco bello grosso, si monda con cura e dopo qualche giorno lo si mette a bollire nei calderoni, quindi se ne distribuisce a parenti e conoscenti e a quelli che il giorno dei morti «ven për limoznen i ti vdekërvet» (girano per il paese chiedendo l'elemosina nel nome dei defunti). Il sabato (e shtunia i t' i vdekërvet), giorno in cui si concludono i riti in onore dei morti, si è svegliati all'alba dai bambini che girano a gruppi per il paese e, bussando ad ogni porta, gridano «Ndje Zot!» (ascolta Signore) e in ricordo dei propri cari si dà loro olio, spiccioli, pagnotte e grano bollito che si mangia condito con mosto cotto o zucchero o fritto in padella con un po' di olio e sale (così lo preferiva mio padre). Le persone adulte, in questo giorno, non girano più come un tempo a chiedere l'elemosina «per shpirtin i ti vdekërvet» e i bambini lo fanno per gioco, attratti dalla novità del fatto e dai soldini: perciò, per accontentarli, per loro si mettono da parte gli spiccioli già molto tempo prima. Tempo fa salivano in paese, a chiedere l'elemosina, gli zingari stanziali alla stazione di Corigliano Calabro, confidando in una generosa offerta che avrebbero ricevuto chiedendola per l'anima dei morti. Priva di fondamento teologico è la credenza popolare secondo cui i morti in questa settimana tornano nei luoghi dove hanno vissuto: per cui bisogna indicare loro la via di casa mettendo sul davanzale di una finestra un lumino preparato in un bicchiere riempito con acqua e olio e, sul galleggiante, si pone e si accende miçarieli, il fiorellino essiccato dell'erba ballota. A Vaccarizzo il sabato mattina si celebra in Chiesa la Santa Messa in suffragio dei morti e, terminata la funzione, Zoti (il Papàs) seguito dai fedeli, in processione, si reca al cimitero dove benedice tutti i morti all'ingresso e, poi, girando per i vialetti, si ferma presso le tombe dove gli viene richiesto, le benedice e recita preghiere e canti per il morto lì sepolto. Tutto questo avviene con l'accompagnamento della banda musicale che suona una struggente marcia funebre, per sottolineare la tristezza del momento. Nel pomeriggio, poi, il prete gira per le case in lutto, dove viene chiamato, «sa t'ngrӕnj panagjin» cioè per procedere a un piccolo rito simbolico che si svolge in suffragio dell'anima del defunto: al centro di una stanza, su un tavolino, si dispongono: un lume, llamba (simbolo dell'immortalità dell'anima), due pani (kravele) e una bottiglia di vino (simboli sacramentali), una coppa contenente il grano bollito (còlivo) e la foto del caro estinto. Il prete recita preghiere e canti, benedice i presenti aspergendo l'acqua benedetta e distribuisce pezzetti di pane e grano. Il grano è il simbolo della Resurrezione: come il chicco non muore sotto terra ma rinasce a nuova vita, così la vita dell'uomo non termina con la morte ma continua nell'aldilà. Naturalmente, in questo triste giorno, anche nei nostri paesi, andando al cimitero, si accendono candele e si mettono fiori sulle tombe e si prega per i propri cari, come in ogni altro paese del mondo.
Nota
Di origine e significato diverso è la tradizione, nell'Italia Meridionale e in Sicilia, di mangiare il grano bollito conciato, ora, in vari modi: essa risale, probabilmente, al lontano 1646 quando Palermo fu colpita dalla carestia. Dopo tante preghiere, miracolosamente, il 13 Dicembre giunse nel porto della città una nave, di provenienza sconosciuta, carica di grano: il popolo affamato e stremato non avendo le forze e il tempo per dedicarsi alle varie fasi della panificazione decise di mangiare il grano dopo averlo bollito, condito semplicemente con sale e olio (così nacque la cuccìa salata). Da allora il 13 dicembre, giorno della festa di Santa Lucia, a Palermo non si mangiano prodotti fatti con la farina di frumento.
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di Giulio Iudicissa
I miei maestri son partiti tutti, già da tanto tempo. L’ultima ad andar via è stata la prima, la maestra d'asilo, mia madre. Quando a loro penso, cosa che avviene in varie circostanze, avverto come un vuoto. Sento che tante stagioni son passate ed io, in parte, sono passato con esse. Qualche libro sgualcito, in bella mostra in libreria, mi riporta, a volte, una voce e, poi, un'aula, nella quale ho tanto imparato ed anche tanto sofferto. Ritorno, allora, bambino o giovinetto, coi miei primi pantaloni lunghi, la mia prima cravatta, la prima barbetta, i miei compagni. Maestri. Potessi averne, oggi, di maestri!
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Pietro e i discepoli compiono un atto di fiducia nei confronti di Gesù, si fidano delle sue parole e così gettano le reti. Vi invio con piacere il pensiero di questa domenica, nella speranza che le parole di Gesù possano guidare anche voi:
Simone rispose: «Maestro,
abbiamo faticato tutta la notte e
non abbiamo preso nulla;
ma sulla tua parola getterò le reti»
Lc 5,1-11
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Siamo testimoni dell’efficacia della parola di Gesù, che in un crescendo progressivo raggiunge la folla, Pietro e i discepoli. Le folle ascoltano Gesù con interesse, intuiscono che in lui c’è un’autorità che dona vita. Pietro e i discepoli si sentono chiamati per nome, interpellati da una parola che li invita a decidersi e a rischiare. Pietro, a nome di tutti, accoglie questo invito perché riconosce la sua povertà, simboleggiata dalle reti vuote. A differenza degli abitanti di Nazaret, che avevano rifiutato Gesù mostrandosi ricchi di pretese. Pietro decide di fidarsi, e in questo modo permette alla parola di Gesù di sprigionare tutta la forza: le reti vuote si riempiono di pesci ed egli stesso rinasce a vita nuova, diventando un pescatore di uomini.
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di Giulio Iudicissa
Sarà capitato anche a te di trovarti in un posto qualsiasi, non importa quale o quando, e avvertire il bisogno di isolarti, raccoglierti un po', pensare, godere di un particolare. Impossibile! Troppo chiasso. Allora, avrei detto a te stesso che sarebbe stato bello, se, per miracolo, almeno per pochi minuti, fosse sceso il silenzio, quello delle persone. Sei rimasto deluso: tanta gente si era là recata non già per rinfrancarsi, ma solo per fare del chiasso.
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