Esigenza di approfondimento teorico e di rigore scientifico nella situazione attuale e recente della critica letteraria marxista in Italia - di Armando Gammetta- Prima Parte
Tratto dalla rivista "La Tela del ragno" n. 1 del 1° dicembre 1983
Alcuni torti dell'attuale critica letteraria marxista in Italia sono dovuti a certe sue chiusure, causate anche da eccesso di polemica e, soprattutto, da carenza di concentrazione teoricocritica, che hanno prodotto da un lato una certa stagnazione di posizioni e dell'altro il rischio di un cedimento verso orientamenti culturali altri e verso tattiche politico-partitiche, legate ai particolari momenti contingenti, senza respiro teorico e di piccoli orizzonti.
Evidentemente non mi riferisco agli errori che si possono commettere nell'approfondimento di una tesi: il matematico e filosofo Alfred N. Whitehead diceva che «il panico dell'errore è la morte del progresso». Chiusure, carenze teoriche e cedimenti, con alla base la travagliata storia della Sinistra italiana, legittimano l'espressione «crisi del marxismo», sia con riferimento generale che critico-letterario. Qui, in queste note, mi riferisco a quest'ultimo aspetto e questa crisi è stata storicamente determinata da tanti fatti di notevolissimo rilievo ed abbastanza noti; ma vediamone almeno uno: l'incontro-scontro del pensiero marxista con molte situazioni storiche, con realtà culturali diverse e opposte ha prodotto diversi modi di atteggiamento di quel pensiero, ora corretti ora assai discutibili. Per esempio, come dice Petronio, dopo gli spunti embrionali ma profondi di Marx ed Engels, già Plekanov e Mehring non riuscivano a fare, come si dice, i conti completamente e definitivamente con il positivismo, anzi ne subivano l'influenza; dopo si tornava alla dialettica con Lenin e Trotzkj, ma è anche vero che allora il travaglio critico di Lukacs, se illuminava il problema del realismo ed il senso della «grande opera», pure determinava chiusure e limiti: è noto che Salinari proprio sul concetto fondamentale di realismo si allontanava da Lukacs, anche se ne condivideva molte cose, attribuendogli la responsabilità della errata equazione realismo = Goethe, Balzac e Tolstoi; autori , questi, che rappresentano soltanto un momento, quello ottocentesco, della tendenza realistica , la quale deve essere recuperata in vari aspetti parziali di opere che certamente non sono esempi «Classici» di realismo.
Disegno inserito nell'articolo che vi proponiamo
Certo, con quella equazione di riduttiva compressione del problema, Lukacs rigettava gran parte della letteratura del Novecento (si sa, rifiutava Kafka e Jojce); e invece Salinari intendeva valorizzare le innovazioni formali e contenutistiche dell'attività letteraria di questo periodo e, quindi, le inglobava nell'interesse realista, mentre, e di conseguenza, gli elementi non innovativi venivano dal nostro critico intesi come non realismo, conservazione: la rigidità del modello realistico lukacsiano veniva così superata e poteva ora essere intesa e valorizzata tanta parte della letteratura del Novecento prima rifiutata. Allora Lukacs, anche se il suo rapporto col Partito e con le autorità politiche era tormentato e costellato di dissensi, in fondo con la sua critica, considerata manichea, che si nutriva di rifiuti in blocco della cultura borghese, finiva con l'essere nell'attività critica, a giudizio di molti, l'equivalente dello stalinismo nella politica generale. Il che vuol dire che il rigore teorico, critico e scientifico della ricerca soggiaceva ad altre realtà, ma vuol dire pure che 1'errore di Lukacs paradossalmente è importantissimo per il progresso della critica marxista. Comunque, quell'errore richiamerà per molto tempo ancora l'attenzione della critica. La cosa grave è invece un'altra, è il significato della divisione pro e contro Lukacs esistita tra i critici marxisti: si pensi, come riflesso italiano, al dibattito del '55 su «Società» intorno al Metello di Pratolini , inteso come romanzo popolare da Alicata e Salinari come romanzo patetico da Muscetta e Cases, segno dell'incontro-scontro tra divulgazione lukacsiana operata da Cases in Italia fin dai primi anni cinquanta e trasformazione programmatico-operativa del concetto di realismo dell'orientamento sociologico del Salinari, principalmente, il quale maturò poi il suo Miti e coscienza del decadentismo italiano (1960), che rimane un «classico» della critica marxista italiana. Divisione, dicevo, che vuol dire incapacità di comprendere i motivi storici e ideologici di quell’errore da parte dei critici che, proprio in quanto marxisti, avrebbero dovuto mostrare capacità di comprensione storica dato che la forza dcl marxismo è storicizzare sé stesso. Non solo, ma vuol dire anche che i pro e i contro Lukacs sono in Italia, in diretta relazione con la situazione della politica culturale del PCI, soprattutto, e non, invece, con il livello di scavo nella teoria-prassi, la vera arma teorica del marxista . D’altronde, nonostante certi suoi limiti, indicati da tanti studiosi tra cui l’attentissimo Luporini, Lukàcs intendeva per realismo il metodo generale, la via maestra in grado di cogliere la totalità di un'epoca; Salinari, invece, riduceva quel metodo a tendenza di valore pratico, a poetica, intesa come ideologia e contenuto. Tutto ciò vuol dire tanto, se ci interessa l'attenzione all'approfondimento teorico ed al rigore scientifico. Ma allora la crisi è più dei marxisti che del marxismo! E ciò potrebbe valere anche oltre l'ambito della realtà critico-letteraria. Il marxismo, al contrario di ogni atteggiamento di rifiuto, intende spiegare il perché storico e sociale di tutti gli aspetti costituenti la realtà e, quindi, non vuole escludere proprio niente. Infatti, se è vero che durante la grave polemica tra marxismo e formalismo russi degli anni trenta Zdanov effettuava epurazioni contro i formalisti perché avversari del «realismo socialista» (anche qui il rigore teorico-scientifico della ricerca viene sacrificato ad altre cose), è anche vero che un grande marxista, Lev Trockij, riconosceva ed ammetteva la legittimità e la utilità dell'analisi formale, naturalmente con valore parziale, ed affermava che «i procedimenti metodologici dei formalisti possono aiutare a chiarire le peculiarità artistico-psicologiche della forma ... La creazione artistica ... è una rifrazione, modificazione, della realtà secondo le leggi particolari della poesia ... E’ verissimo che in base ai soli principi del marxismo non si può mai giudicare, re spingere o accettare un'opera d'arte ... ma soltanto il marxismo è capace di spiegare perché e come in una data epoca è nata una certa tendenza nell'arte, cioè chi e perché ha espresso la richiesta di quelle e non di altre forme artistiche... L'arte può e deve essere giudicata dal punto di vista dei suoi risultati formali, poiché al di fuori di questi non ci può essere arte» (1). L'ortodossia staliniana non capì la grande importanza di queste idee di Trockij, che oggi, sono di grande attualità per intendere significato e limiti dei metodi strutturali e semiologici nella prospettiva delle due analisi, interna ed esterna, dei fatti artistici e letterari, in direzione di uno studio integrale, sì, ma marxista, ossia materialistico - dialettico, anche per l'analisi interna. Da noi, in Italia, il comportamento della critica marxista, travagliato e oscillante, per i particolari rapporti con i partiti della Sinistra e con la storia della nostra società e cultura, può essere rettamente inteso, se si riflette bene sugli usi che di Gramsci sono stati fatti, oltre che su certi nodi della indagine di questi non del tutto sciolti nemmeno oggi. Storia, politica, critica letteraria, cultura, Gramsci: certo, perché la critica marxista, in generale, va individuata tra due punti di riferimento rapportati dialetticamente: il corpo ideologico del marxismo (l'intera storia della problematica teorica) e la realtà pratica della struttura economico-sociale ad esso ispirata, certamente con molti dissensi, anche laceranti, e contraddizioni; e perché Gramsci è la base dei rapporti tra marxismo e critica letteraria in Italia. Gli usi, dunque, che si fecero di Gramsci e, naturalmente, i limiti della critica marìxista: per intendere bene tutto ciò forse è opportuna un'osservazione, d'altronde nota. Come non ci fu vera e completa frattura, vera e totale rottura tra periodo fascista e periodo storico ad esso precedente (2), così non ce ne fu tra fascismo e periodo della Resistenza e resistenziale: il potere economico e politico continua ad essere gestito da forze capitalistiche e conservatrici, la cultura è incollata ad una organizzazione proveniente dal fascismo (pensiamo alla struttura della scuola), vengono riproposte mentalità idealistiche, il ruolo degli intellettuali viene inteso tradizionalmente, non si trae profitto dal significato di svolta '(questo sì!) degli anni 1944-45 (presenza delle masse nella vita pubblica, legittimità della lolla operaia nella democrazia politica, possibilità marxiste nella cultura italiana), il che vuol dire che dal '45 in poi la ricostruzione fu quella del capitalismo, con struttura per niente moderna, anzi molto simile a quella degli anni trenta. E significativo che nel '47 la rivista « Il Ponte » poté notare che addirittura il CLN sul piano economico si era comportato da conservatore (i consigli di gestione non furono ben difesi dai partiti di sinistra!). Bisogna aggiungere il significato interclassista e soltanto democratico - antifascista della «svolta di Salerno» del PCI (1944) e del suo V Congresso del Partito (1945), nonché il significato di quel rinnovare conservando, in tema di rinnovamento culturale, indicato sul primo numero di « Società » (3), nuova rivista teorica del PCI, inteso a considerare il marxismo come una semplice componente avanzata di tutta la cultura nazionale. Così, il carattere alternativo-critico- demistificante e la peculiarità teoria-prassi del marxismo andavano a farsi benedire! Non c'è, dunque, approfondimento teorico e rigore scientifico. D'altra parte, un po' tutti gli intellettuali di sinistra provenivano non certo da una formazione marxista, altrimenti già nella loro collaborazione alla rivista di Bottai «Primato» ('40-'43) avrebbero dovuto capire che non era certamente di sinistra quel miscuglio di caratteristiche e aspirazioni unitarie fondate sull’interesse della Patria e in nome della cultura, intesa questa come: «missione civile e progressiva», che manteneva però il carattere privilegiato dell'intellettuale separato dalla lotta delle masse. In fondo, anche la visione del «Politecnico» em borghese di derivazione romantico risorgimentale. Ma allora tanta parte della critica marxista italiana è caratterizzata da esigenze tutt'altro che teorico - scientifiche, al massimo si spiega con motivazioni morale- culturali circoscritte in un perimetro di ideologia dell'impegno. Bene, ecco perché il miscuglio degli equivoci va avanti e perdura come impegno e storicismo anche dopo la conversione al marxismo da parte di molti critici; addirittura, nel dopoguerra, idealismo e marxismo (due nemici naturali) molto spesso vengono assimilati, impastati e fusi nella nozione pratica di storicismo. Da tutte queste cose nasce la linea Vico - De Sanctis - Croce – Gramsci, linea di natura idealistica e storicistica (non certo marxista), che ha prodotto tanta critica letteraria marxista (direi solo parzialmente marxista). Inoltre, Gramsci veniva visto anche come sviluppo di quel filo popolare ottocentesco (Manzoni - Verga), ma sempre nella sola ottica di antifascismo, di unità nazionale, di letteratura vagamente nazionalpopolare. Ma, quando cominciano a diffondersi gli scritti di Gramsci (dopo il 1947), si inizia l'impresa di raccordare il pensiero di questi al materialismo dialettico; nasce la linea Lenin - Gramsci - Stalin – Zdanov (dal 1948 in poi): c'è la possibilità di capire, finalmente in senso marxista, l'attenzione gramsciana agli intellettuali in quanto massa (con ciò si può attaccare il ruolo di casta degli intellettuali); ma il PCI non cammina su questa strada, va con il concetto togliattiano dell'intellettuale visto sotto l'aspetto individuale e ideologico e non organizzativo. (Fine prima parte)