L’inverno del ‘43 fu, a Corigliano, il più penoso di tutti e cinque gli anni di guerra. Alle penurie alimentari ed alla mancanza di ogni altro genere, dai vestiti alle calzature, si aggiunse un rigore climatico che fu di gran lunga il peggiore di tutti gli altri anni precedenti, almeno di quelli che ricordavo io, ultimo “rampollo” della famiglia Scura, allora appena decenne.
A casa, un braciere a “carbonella”, intorno al quale tutti facevamo corona, sì e no riusciva a “scottarci” le gambe, ma le spalle, di quel calore, non coglievano nulla e, spesso, eravamo raffreddati, e col naso che colava. Mio padre, quell’anno, aveva preso, in gestione, un frantoio, per la molitura delle olive, di proprietà del barone De Rosis Morgia, che era installato in un antico immobile, tuttora esistente, in immediata vicinanza del ponte sul Torrente Coriglianeto, pittorescamente e con garbo adagiato su una collinetta che nella forma richiama un tronco di cono. La struttura, ormai abbandonata, come tante del vecchio centro storico, è ancora lì a testimoniare un glorioso passato industriale di una Corigliano che non c’è più. Quel frantoio, posizionato in prossimità della Strada Statale 106, agevolava il trasporto delle olive, di solito a dorso d’asino, che i produttori conferivano al frantoio, dietro rilascio di una “bolletta” di consegna che, spesso, eravamo noi bambini a compilare, dopo la misurazione in recipienti legalmente omologati, il ”tomolo” (33 litri),lo “stuppello” e la “molitura”, due frazioni del tomolo, in ordine decrescente. Quel posto era battuto dal vento gelido di tramontana che, giunto ai margini del ponte, s’incanalava nella strettoia della golena, per subire l’effetto di un venturimetro, con aumento violento della velocità e conseguente rapido abbassamento di temperatura. Più o meno, l’analogo effetto causato dalla bora a Trieste. La denominazione corrente di quell’immobile era “Spitaletto” perchè, in tempi passati, aveva ospitato un piccolo primordiale ospedale. E lascio immaginare con quali… comforts, se si pensa che già, nei lontani tempi andati, ospedale voleva dire “lazzaretto”. Consisteva in un molto ampio piano terra ed in un uguale primo piano destinato a spanditoio delle olive che vi venivano stese ad asciugare e ad arieggiarsi fino a quando non venivano, poi, convogliate in opportune caditoie che, a mezzo di tramogge, le facevano precipitare nella sottostante vasca della macina. La lavorazione si trascinava tra le frequenti interruzioni di energia elettrica e le difficoltà dovute alla disastrosa carenza di manodopera, dovuta alla chiamata alle armi delle persone valide. Restava qualche malandato e qualche malaticcio, e di quelli ci si doveva accontentare. Ovviamente con ridotta resa lavorativa. Uno solo, ricordo, vantava una buona prestanza fisica, e non mi son mai capacitato del perchè non prestasse servizio militare. Era un omone dell’Alta Italia. Si chiamava Verdi, e come altro si poteva chiamare, essendo di Parma? Pronunciava la s strisciata tipica dell’accento emiliano. Tutto sommato era un simpaticone. Quell’anno, incredibilmente, ci fu una produzione olivicola tanto eccezionale che non bastava neanche l’istituzione dei turni di notte per far fronte all’emergenza, onde evitare che le olive marcissero per prolungata permanenza prima della molitura. Ma il persistere di quell’emergenza causò un certo malcontento in quegli operai costretti a turni massacranti anche se, è ovvio, giustamente retribuiti. E la cosa sfociò, incredibilmente, sebbene in anni di regime fascista, nella decisione degli operai (che poi erano appena appena sette) di attuare uno sciopero di protesta. Il più attivo, nel rivendicare un alleggerimento di quel “pressing” fu proprio Verdi. Ma quando giunse il giorno stabilito, tutti si tirarono indietro, per non perdere gli emolumenti di quella giornata e… nottata. Unico a scioperare fu…Verdi che, amareggiato e, probabilmente, anche. schifato, in un franco e leale colloquio con mio padre sfogò il suo rancore sull’inaffidabilità di quei “terun de l’ostia” che, oltretutto, gli avevano fatto fare una pessima figura con mio padre che, peraltro, lui stimava molto sotto l’aspetto umano. Uno dei ricordi più belli, di quel tempo di fame, è quando, la sera, nella pausa cena, si mettevano tutti insieme, quegli operai, a prepararsi qualcosa da mangiare. E quando ci ripenso, mi viene ancora l’acquolina in bocca, per quelle fette di pane, razionato (200 grammi a testa), che friggevano in abbondantissimo olio d’oliva, e ancora caldo, gustoso e croccante, non mancavano di offrirne, molto generosamente, anche a noi bambini. Spesso mettevano a cuocere i saporitissimi “broccoli di rape” e quando, raramente, riuscivano a procurarsi la salsiccia di maiale, l’odorino parlava con le stelle. L’olio, almeno, il prezioso olio d’oliva, almeno quello, non mancava, e nessuno glielo lesinava. Nonostante tutti i disagi, almeno, in quel frantoio, si stava al caldo, per i caminetti in cui si metteva a bruciare la “sansa”, lo scarto della spremitura delle olive, che era un ottimo combustibile, ricco com’era della componente oleosa non completamente estratta. Insomma quel piacevole tepore era allettante più del disagio che dovevamo sopportare a casa. Il momento più sofferto era quando, nelle gelide serate invernali, capitava di far tardi a tornare a casa e nostro padre ci faceva compagnia fino alle prime case dell’abitato. Sempre al buio pesto, per la mancanza assoluta di illuminazione pubblica imposta dalle severe “leggi dell’oscuramento”. E camminavamo in fila indiana, uno attaccato alla cintura dell’altro, con capofila mio padre che, quei percorsi, ormai, li conosceva a memoria. E una delle prime case, per noi avvolta in un alone di mistero, era l’allora casa…”di tolleranza”. Noi bambini facevamo finta di non saperlo, e nostro padre faceva, altrettanto, finta di non saperlo, nel dovuto reciproco rispetto del “comune senso del pudore”. Ma una sera, davanti al portoncino della “casa”, incontrammo un signore, ”felicemente” ammogliato, amico di mio padre, che molto imbarazzato, disse subito che era lì per verificare se, da lontano, si notavano segni di luce provenienti dalle finestre dal convitto “GAROPOLI” dove lui, istitutore, si era assunto la responsabilità di oscurare i vetri, con vernice blu, onde rispettare le disposizioni sull’oscuramento, imposte per evitare che gli aerei nemici, nei voli notturni, potessero individuarli come eventuali obiettivi. Addirittura offrì a mio padre una sigaretta che provvide anche ad accendergliela con un fiammifero. Alla luce di quella fiammella, notai un malcelato sorrisetto di mio padre, e capii che l’amico non gliela dava a bere ma, per entrambi, era necessario che noi bambini ci credessimo. E tutti e due non avevano capito che noi, invece… avevamo “capito”. Fors’anche troppo bene, avevamo capito, tutto.
Ernesto SCURA