La Redazione

 I lavoratori autonomi più ricchi d’Italia esercitano l’attività a Milano. Il reddito medio è di 38.140 euro: due volte e mezzo più elevato di quanto dichiarano i colleghi di Vibo Valentia che, invece, occupano l’ultima posizione di questa classifica con soli 15.479 euro. Il dato medio nazionale, invece, è pari a 26.248 euro.

L’elaborazione, effettuata dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre, riguarda i redditi medi dei lavoratori autonomi riferiti alla dichiarazione dei redditi 2016 (anno di imposta 2015). In questa graduatoria, appena sotto Milano si collocano le partite Iva di Bolzano (con un reddito medio di 35.294 euro), di Lecco (33.897 euro), di Bologna (33.584), di Como (32.298 euro) e di Monza (32.022 euro). Se, ad eccezione di Bolzano e Bologna, le primissime posizioni sono occupate dai lavoratori autonomi lombardi, le posizioni di coda, invece, sono ad appannaggio dei calabresi. Al terz’ultimo posto, infatti, ci sono quelli di Cosenza (16.318 euro), al penultimo quelli di Crotone (15.645) e, infine, quelli di Vibo Valentia (15.479 euro). “Rispetto al 2013, anno di picco negativo del Pil registrato dopo la crisi del 2008-2009, il reddito medio a livello nazionale – dice la Cgia – è aumentato di 2.600 euro, con punte massime di 3.577 euro a Milano, di 3.376 euro a Bolzano e di 3.263 euro a Modena. La situazione, comunque, resta difficile non solo in Italia. Secondo quanto riportato dal “Piano d’azione imprenditorialità 2020” redatto dalla Commissione europea, dal 2004 la percentuale delle persone che preferiscono il lavoro autonomo al lavoro subordinato è scesa in 23 dei 27 Stati membri dell’Ue. Mentre qualche anno fa per il 45% dei cittadini europei il lavoro autonomo era la scelta privilegiata, ora questa incidenza è scesa al 37%. Sebbene i dati riferiti al reddito medio siano abbastanza positivi – dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – non dobbiamo dimenticare che la crisi ha fortemente polarizzato il mondo degli autonomi, condizionando questi risultati. Tra i redditi più elevati, ad esempio, troviamo la fascia di lavoratori tra i 50 e i 65 anni. Il che non deve stupire, se è vero che l’esperienza e la rete di relazioni aumentano con l’esercizio della professione. Viceversa, gli under 40 hanno subito un processo di proletarizzazione della professione che è stato spaventoso. Il crollo dei redditi, l’aumento della precarietà, l’elevata intermittenza lavorativa e lo scarso grado di autonomia hanno caratterizzato l’attività lavorativa di centinaia di migliaia di giovani professionisti. Questa situazione, inoltre, ha divaricato le disparità territoriali: in particolar modo tra il Nord e il Sud del Paese“.

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